“La vita è solo la manutenzione di una circostanza”.
Da questa frase sibillina, estratta da uno dei testi presenti nel disco, iniziamo a raccontarvi di un nuovo cantautore. Si chiama Filippo Uttinacci, ma preferisce definirsi col suo nome d’arte, vale a dire Fulminacci. Sorta di crasi molto sui generis tra nome e cognome e allo stesso tempo espressione di stupore d’altri tempi, utile a descrivere un personaggio alquanto alieno rispetto all’attuale panorama musicale. “La Vita Veramente” è il suo lavoro d’esordio, uscito pochi giorni fa.
Giovane cantautore (appena 21 anni), romano – ma di periferia ‘e non quella inflazionata’ come lui stesso con orgoglio precisa – fresco di contratto con la prestigiosa etichetta discografica milanese Maciste (la stessa di nomi di grosso calibro come Canova, Gazzelle, Galeffi) e nove canzoni da presentare alle orecchie del pubblico italiano. Il quale scorgerà con gioia e un sospiro di sollievo influenze lontane davvero anni luce – il Battisti del ’76/’77, Bennato, i primi lavori di Fabi e Silvestri – rispetto al trito cantauto-rap, capitolino e non, che oggi va tanto per la maggiore.
E anche se per un attimo sembra anche lui scivolare in quei territori, beh, il tutto scorre via più alla maniera di un Jovanotti ’94 che di Carl Brave.
“Un disco pieno di me e questa è sicuramente la cosa più bella”. Così l’autore descrive il suo lavoro d’esordio: “lo considero un album estremamente vario, quasi schizofrenico nella sua proposta stilistica, ma nonostante questo nessun brano risulta figlio unico, ha una coerenza tutta sua e rispecchia la mia voglia di sperimentare e di non fermarmi mai, neanche quando sono soddisfatto. Parlo di amori e rincorse, di tangenziali e gite, tradimenti e caffè, sigarette, ascensori e semafori, insomma parlo della vita, veramente”.
In mezz’ora scarsa di durata, Fulminacci si racconta in maniera scarna, cinica e diretta. Lo fa con una dizione pulita, priva di eccessive cadenze o strascinati accenti dialettali ‘romanacci’, di cui ormai è strapiena la scena. Va dritto al punto, senza orpelli inutili: solo la chitarra acustica, la sezione ritmica e tastiere/organo/synth. Con qualche occasionale pennellata affidata alla sei corde elettrica. Gli arrangiamenti privilegiano tempi medi e un’intenzione quasi sempre mossa, ballabile, bluesy e funky. Con alcune aperture melodiche inattese, perfetto compendio in formato ‘ballata’ ai contenuti espressi.
A chi scrive fa estremamente piacere constatare quanto il Nostro non segua quasi per nulla i codici e gli stilemi fortunati degli altri “romani” d’esportazione di oggi (Calcutta; Tommaso Paradiso; Coez; Ultimo; Mannarino; il già citato Carl Brave o Franco126), ma una direzione davvero tutta sua con la quale ci auguriamo abbia il riscontro che merita.
Scrive, arrangia e canta le sue canzoni. Piace per freschezza e versatilità. Per l’intelligenza emotiva brillante, votata alla “straordinaria quotidianità”. Infine per il suo umore irrequieto, cinico, capace di non adeguarsi alle mode e alle consuetudini imperanti. Il suo è un disco di formazione, di dubbi, di paure, di malinconie e fragilità tipiche di chi si sta scoprendo non ancora adulto ma neppure più post – adolescente.
Le nostre preferite? “La Vita Veramente”, “Una Sera” e “Tommaso“. Ma poi, e com’è giusto che sia, ognuno troverà le sue: il piatto è ricco. Perciò salutiamo con orgoglio la nascita di una nuova voce. E al tour che comincia proprio stasera (Al Largo Venue di Roma) auguriamo forte vento a favore.
Ariel Bertoldo