Gabriele D’Annunzio, cinque poesie da leggere per immergersi nel mistico mondo del decadentismo

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Di Redazione Metropolitan

Gabriele D’Annunzio, è stato prima di tutto uno scrittore e poeta. In aggiunta è stato anche drammaturgo, militare, politico, giornalista e soprattutto patriota italiano. Simbolo del decadentismo, il poeta, con il suo modo di essere e pensare, seppe perciò creare un proprio stile di vita e di arte: il cosiddetto “dannunzianesimo”. Fenomeno culturale e di costume che di conseguenza ha influenzato la vita pratica, letteraria e politica degli italiani del suo tempo.

Gabriele D’Annunzio, poeta esteta

Non ci dilungheremo sulla biografia del poeta, perché attraverso i suoi stessi componimenti vogliamo farvi conoscere meglio questo tanto straordinario quanto controverso artista. Abbiamo perciò scelto per voi cinque poesie che, secondo noi, vale assolutamente la pena di leggere. Non saranno forse le più conosciute del poeta, ma vi possiamo assicurare che ben esprimono la sua poetica eccentrica e mai banale.

Nella sua piena e impegnata vita, Gabriele D’Annunzio influenzò quindi il costume dei ceti aristocratici con i suoi atteggiamenti estetizzanti, narcisistici, edonistici ed immorali. Mentre in quella letteraria diventò modello di tanti poeti del suo tempo con i suoi virtuosismi lessicali e stilistici. Estetismo, Panismo, Vitalismo e Sensualità sono gli elementi particolarmente rilevanti nei suoi versi.

Cinque Poesie

Le prime due sono tratte dalla raccolta “Il Poema Paradisiaco”. Pubblicata nel 1893 è divisa in cinque sezioni e contiene quasi 60 poesie.

Sopra un erotik 

Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte
sia de la morte) e senza mutamento.

Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sien le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo, che pianga in un silenzio intento.

Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri attingere il grande astro polare.

Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell’ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un sepolcro, l’infinito.

Un Sogno

Io non odo i miei passi nel viale
muto per ove il Sogno mi conduce.
È l’ora del silenzio e de la luce.
Un velario di perle è il cielo, eguale.

Attingono i cipressi con oscure
punte quel cielo: immoti, senza pianto;
ma sono tristi, ma non sono tanto
tristi i cipressi de le sepolture.

Il paese d’in torno è sconosciuto,
quasi informe, abitato da un mistero
antichissimo, dove il mio pensiero
si perde, andando pe ’l viale muto.

Io non odo i miei passi. Io sono come
un’ombra; il mio dolore è come un’ombra;
è tutta la mia vita come un’ombra
vaga, incerta, indistinta, senza nome.

La terza che vi proponiamo è probabilmente la meno nota di tutte. Tratta da Canto Novo, Gabriele D’Annunzio la scrive quando ha solamente 19 anni e la dedica alla Luna.

O falce di luna calante

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco

esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ’l vasto silenzio va.

Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…

O falce calante, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Le ultime due della nostra personale selezione sono tratte dal componimento Alcyone. Raccolta di liriche pubblicata nel 1903. È considerato il terzo libro delle “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi”.

Stabat nuda Aestas

Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la resina gemette giù pe’ fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco

entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò ne’ suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.

Furit Aestus

Un falco stride nel color di perla:
tutto il cielo si squarcia come un velo.
O brivido su i mari taciturni,
soffio, indizio del sùbito nembo!
O sangue mio come i mari d’estate!
La forza annoda tutte le radici:
sotto la terra sta, nascosta e immensa.
La pietra brilla più d’ogni altra inerzia.

La luce copre abissi di silenzio,
simile ad occhio immobile che celi
moltitudini folli di desiri.
L’Ignoto viene a me, l’Ignoto attendo!
Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.
Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.

T’amo, o tagliente pietra che su l’erta
brilli pronta a ferire il nudo piede.

Mia dira sete, tu mi sei più cara
che tutte le dolci acque dei ruscelli.
Abita nella mia selvaggia pace
la febbre come dentro le paludi.

Pieno di grida è il riposato petto.
L’ora è giunta, o mia Messe, l’ora è giunta!
Terribile nel cuore del meriggio
pesa, o Messe, la tua maturità.

Ilaria Festa

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