È lo stesso Christian Frei, in una clip introduttiva, a definire Genesis 2.0 (2018) un incontro fra Mad Max e Jurassic Park. E non avrebbe potuto descriverlo meglio. Il documentario, infatti, è innanzitutto costruito su una narrazione parallela, divisa tra la tundra dell’artico e i laboratori di biologia di sintesi.
Da un lato il film segue le avventure dei ricercatori di zanne di mammut, tra terre selvagge e impervie e condizioni di vita disumane. Dall’altro racconta come una scoperta tra quegli stessi ghiacci potrebbe cambiare per sempre la vita sulla terra e l’ingegneria genetica e molecolare.
Il difficile equilibrio in “Genesis 2.0”
Frei ammette di aver lavorato per oltre un anno nel tentativo di porre i due livelli in relazione, ma di esserci riuscito proprio in fase di montaggio. Le due realtà, infatti, pur rappresentando mondi diversi riescono a dialogare e a far trasparire una profonda preoccupazione del regista verso l’etica del progresso scientifico.
La componente Mad Max è naturalmente quella girata nelle isole della Nuova Siberia, grazie all’aiuto regia di un filmmaker autoctono, Maxim Arbugaev. Qui la natura sovrasta ancora l’uomo e lo domina. È una natura che lascia interdetti, per la sua bellezza e per la sua durezza. Arbugaev parla di malattia artica, un po’ come il mal d’Africa, la sensazione di essere risucchiati e prosciugati dalla Natura primitiva, incapaci di tornare illesi nella civiltà. Non a caso queste sequenze sono commentate spesso da una voce fuori campo, una voce femminile che incarna Madre Natura e recita antichi poemi degli Jakuti siberiani.
Il nuovo Jurassic Park è poi la parte propriamente girata da Frei, tra l’Università di Harvard, un centro di clonazione in Corea del Sud e una banca genetica in Cina. Pur cercando di mantenere un distacco neutrale, l’orrore di Frei nei confronti degli uomini che giocano a fare Dio è palese. Da creature vogliono diventare creatori, in nome di un progresso che perde il rispetto e la sacralità.
È molto chiara, in questo senso, l’opposizione che il film cerca di creare tra i cercatori di mammut, ancora legati ai rituali di purificazione e perdono davanti ai resti degli animali, e gli scienziati proiettati solo verso i risultati futuri. Si può rintracciare una sottile denuncia sociale verso l’ingordigia dell’uomo, che vuole sempre di più, che vuole tutto solo perché è possibile averlo, non perché sia necessario.
Un perenne dilemma etico
Genesis 2.0 pone lo spettatore inevitabilmente di fronte all’eterno dilemma etico della scienza, tra ciò che è possibile e ciò che è moralmente lecito. I confini di questo limite si spostano continuamente, in base alla cultura di provenienza e in base all’epoca in cui si vive, ma non cadono mai del tutto. Non è possibile, tuttavia, provare a raccontarli senza prendere una posizione. Da qualche parte nel profondo ogni spettatore sa già qual è la propria risposta a questo dilemma. È qualcosa che nasce nelle viscere, nell’istinto di conservazione e solo dopo si fa razionalizzare.
Al di là del rifiuto istintivo, dunque, Frei arriva a costruire un messaggio ben preciso, calcolato e anti-capitalista. Mostra due mondi che in fin dei conti sono mossi e divisi sempre e solo dal denaro, dall’avidità, dalla brama di avere di più. È un desiderio incontenibile, che definisce l’umanità stessa e che per questo spaventa in maniera profonda, perché riguarda ognuno di noi, in misura diversa. Per questo è quasi impossibile non rimanere quanto meno scossi dalla visione di Genesis 2.0.
Articolo di Valeria Verbaro
Continua a seguire MMI anche su Facebook.