Genova, i luoghi di De André: un viaggio fisico e sentimentale

Foto dell'autore

Di Federica De Candia

La sua chitarra conosce Genova. Con le “Ombre di facce, facce di marinai”. Passando per “Via del campo“, nel vicolo malfamato degli anni ’60, dove la proposta di matrimonio ad una prostituta poteva farla solo un ‘illuso’. Fabrizio de Andrè‘ il cantore degli ultimi, degli emarginati, ha fatto della sua città poesia. Perché anche il più stretto carruggio, l’anfratto più buio, ha da raccontare una storia. E la malinconia leggera e modulata dalla sua voce, ne accarezza ogni luogo. Genova, vissuta, consumata, amata da quel figlio solitario che rende bello un disagio per mestiere, la riproponiamo seguendo le note e i passi di Faber. In un itinerario romantico, un po’ dimenticato, folle, in salita e discesa appoggiati a una “Crêuza“, una mulattiera di mare.

La ‘superba’, olio fritto e salsedine

Genova, i luoghi di Fabrizio de André, Via del Campo

La immaginò come un dedalo di vie strette come sentieri. Genova, certo, sarebbe diversa se non l’avesse cantata. Con il suo profumo di focacce calde, di pesce fritto, misto a salsedine, che si fa tanto più forte quando cala l’umidità. Che impregna e stordisce. Queste e altre particolarità uniche, De André le ha rese eterne: “Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli / In quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori / lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano / quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano. / Se tu penserai, se giudicherai / da buon borghese / li condannerai a cinquemila anni più le spese / ma se capirai, se li cercherai fino in fondo / se non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo”. Le parole de “La Città Vecchia“, riprendendono la poesia di Saba dedicata alla sua Trieste. E sono intrise di letteratura francese, della poesia “Embrasse-moi” di Jacques Prévert, quando descrive i dimenticati, anche dal sole: “Il Sole del buon Dio non brilla dalle nostre parti / Ha troppo da fare nei quartieri ricchi”.

In via del Campo, che a metà altezza si apre nella piazza, c’è una targa in ardesia a ricordare i versi finali della canzone omonima: “Dai diamanti non nasce niente Dal letame nascono i fior”. La musica di “Via del campo” è stata scritta da Faber insieme al medico chirurgo prestato al pianoforte, Enzo Jannacci, e al premio Nobel Dario Fo, da una sua ricerca di brani del ‘500. Tra note miste a un organo e un clavicembalo, si alza il canto: “Una bambina / con le labbra color rugiada / gli occhi grigi come la strada / nascon fiori dove cammina“. Al numero 29 rosso della via, per decenni ha vissuto lo storico negozio di strumenti “Musica Gianni Tassio“, punto di riferimento dei cantautori genovesi. Chiuso nel 2010, pochi anni dopo la morte del titolare, grande amico di De André. Oggi lo spazio è divenuto un’esposizione permanente dedicata alla memoria del cantautore e degli altri artisti della scuola ligure, Luigi Tenco, Gino Paoli, Bruno Lauzi. Ricco di cimeli e vinili originali, è anche sede del “Genoa Club Fabrizio De André”. I musicisti genovesi, a cui si aggiungevano anche i New Trolls e Ivano Fossati, intorno agli anni ’60 si ritrovano al “Bar Roby“, che oggi non esiste più, all’angolo tra via Cecchi e Corso Cesaregis.

Una mulattiera costeggia i sogni

I portici di Sottoripa furono protagonisti negli anni ’50, delle nottate di De André insieme all’amico Paolo Villaggio. Uno dei locali frequentati, “Il Ragno Verde“, è citato nel romanzo “Un destino ridicolo” scritto da Faber e Alessandro Gennari. L’altro ritrovo era “La Borsa di Arlecchino“, che fu teatro delle prime esibizioni dell’artista. Poi c’era il bar vicino al porto, in via Buozzi, che restava aperto tutta la notte, il luogo ideale dove concludere una serata passata a far bagordi. Giù al porto, c’è una via che porta il suo nome: la Via al Mare Fabrizio De André, che collega l’Isola delle Chiatte alla terraferma. Mentre il mercato del pesce di piazza Cavour, dove il cantautore registrò le voci dei pescivendoli di “Creuza de mä“, non è più attivo. Restano incise su nastro le grida di Pino il muscolaio, o di Caterina la donna dei bianchetti, ‘gianchetti‘. “Umbre de muri, muri de mainé, e la canzone ti porta lungo i muriccioli, a calpestare le tipiche mattonelle rosse, fino alla piazzetta del borgo di Boccadasse. Con le case colorate a tinta pastello incrostate di sale, e i camalli, gli uomini di porto genovesi, che vanno in su e in giù. Che arrivano da lontano, “dove la luna si mostra nuda”. Il dialetto si mescola ai sapori: ‘frittura di pesciolini, bianco di Portofino cervelle di agnello nello stesso vino lasagne da tagliare ai quattro sughi, pasticcio in agrodolce di lepre di tegole’. Le pietanze che alla ‘taverna di Andrea’ (“Du Dria” Dall’Andrea), aspettano chi torna dal mare.

Il pasticcere di via Roma sta scendendo le scale…Ogni dozzina di gradini Trova una mano da pestare Ha una frusta giocattolo Sotto l’abito da tè”. Al 51 c’è la pasticceria confetteria Romanengo, citata da nella canzone “Parlando del naufragio della London Valour“. Aria di casa in via De Nicolay 12 nel quartiere Pegli, che vide i natali di Fabrizio de Andrè, nella Villa Saluzzo Bombrini, dimora storica e nobiliare soprannominata “Il Paradiso”, quartiere di Albaro. Mentre a corso Italia 6 abitò in gioventù, quando scrisse “La canzone di Marinella“. Girando per Vico dritto di Ponticello, oggi parte di Piazza Dante, la protagonista è la canzone a luci rosse, “A dumenega“. Cantata interamente in dialetto, e dedicata a un’usanza tutta genovese risalente al medioevo: lo scandaloso “rito” della passeggiata domenicale delle prostitute. Un bel vedere criticato dalla gente, nell’invettiva fantasiosa degli stornelli. Non manca però, chi inveisce contro ‘le bagasce’, ma non riconosce fra quelle la propria moglie.

Il profumo di una canzone

Il “Bar Berto“, mantiene intatto il suo stile liberty. Frequentato da Fabrizio ai tempi, sfoggia all’interno una sua foto originale dell’archivio Leoni. Poi ci sono i bar di Piazza Lavagna, ritrovo dei mondani genovesi più “maturi”, o quelli di Piazza della Lepre. In uno di questi De André ha visto i “quattro pensionati, mezzo avvelenati, al tavolino”. Alle Osterie cercate A cimma. De André rimase affascinato dalla pietanza, tanto da scriverci una canzone sulla meticolosa preparazione, specie durante il periodo pasquale. Una tasca di carne di vitello, con verdure, farcita di uova, formaggio, interiora di carne, pinoli ed erbe aromatiche. Un rito, tramandato nel corso dei secoli. Per una sua buona riuscita, bisogna partire dalla levataccia mattutina: quando “a luxe a l’à ‘n pè ‘n tera e l’àtru in mà” (Quando la luce ha un piede in terra e un altro in mare). Mentre l’odore di alici, pare di sentirlo nella canzone “Le acciughe fanno il pallone”, che cita il quartiere residenziale di Foce. Scritta insieme a Fossati, sulla svendita di questi pesci azzurri, poveri ma vita per i pescatori. Che in branco, cercano di scappare in un vortice simile a un enorme pallone, fin quando il tonno alalunga le caccia via.

Genova, è sempre stata sua. “Si guardavano partire i piroscafi con un pizzico di malinconia”, disse una volta Fabrizio ricordando la sua gioventù al porto. Lo scirocco che vien dal mare, la lanterna, sono bellezze racchiuse in un pugno, che si apre carezzevole sulle corde di una chitarra. Se volete sentirvi Principi a passeggio per le vie di Genova, o viandanti sconosciuti nel suo ventre di viottoli e taverne, sappiate che le note di Fabrizio De André vi faranno da guida nella lingua della poesia: “Passano le villeggianti con gli occhi di vetro scuro, passano sotto le reti che asciugano sul muro…“.

Federica De Candia Seguici su Google News