C’è un filo rosso che lega le proteste per l’uccisione da parte della polizia di George Floyd e il mondo del tennis. E’ un legame che parla di privilegi, discriminazione e differenze profonde e radicate di mobilità sociale. Le immagini del corpo esanime di George Floyd hanno fatto il giro del mondo e scosso le coscienze addormentate. Le mobilitazioni hanno coinvolto anche la popolazione bianca e hanno dimostrato una volta di più la lacerazione intestina di una nazione che ha le radici sporche di sangue e che solo attraverso il conflitto riesce a fare i conti col suo passato.
In questo senso il tennis, sport tra i più elitari del panorama, è lo specchio più adatto per analizzare la crisi sociale che, non da oggi, attraversa gli Usa. Al netto delle prese di posizione decise di alcuni grandi esponenti del tennis a stelle e strisce e non solo, è tema dibattuto da generazioni quello della scarsa quantità di afroamericani che si sono imposti in questa disciplina. Finalmente superate certe fandonie su supposte attitudini caratteriali, il discorso ha trovato il suo centro nella struttura stessa della società americana e nell’organizzazione dello sport universitario e professionistico.
L’aspetto economico e la questione dei circoli
Da ambo le parti dell’oceano il tennis si pratica nei circoli il cui ingresso è riservato ai soci che pagano quote spesso elevate. Per tradizione i circoli sono frequentati da bianchi, per ragioni economiche oltre che sociali. Certamente non è solo questione di soldi. Ma un ragazzo afroamericano non ha nessuna tentazione di far parte di una cerchia nella quale si sentirebbe l’unico, isolato ed emarginato forse. Certamente distante dal suo retroterra culturale quanto dall’ambito delle sue frequentazioni.
L’aspetto respingente delle comunità chiuse è un fenomeno che non può essere sottovalutato. Il giovane tennista afroamericano che si affaccia a questo sport non deve essere solamente forte. Deve avere anche una solidità mentale tale da superare certi ostacoli, una sicurezza in sé stesso per niente scontata e una determinazione superiore a quella dei colleghi bianchi. Saper battere gli avversari e al tempo stesso i pregiudizi e l’isolamento. Trovare il suo posto in un ambiente che lo vive come un corpo estraneo. Da sempre esistono due categorie di atleti. Quelli che hanno bisogno di sentirsi protetti per esprimersi al meglio e quelli che vivono di sfide e si esaltano quando l’ambiente è ostile. Questi ultimi non sono affatto la maggioranza. Tutt’altro.
Le differenze tra tennis maschile e femminile
C’è da notare che ad altissimi livelli esiste una netta differenza tra settore maschile e femminile. Questo deve necessariamente rispondere a determinate motivazioni. Si pensa che mentre il tennis al femminile garantisce mediamente guadagni più consistenti degli altri sport, al maschile invece basket, football, baseball consentono di ambire a contratti stellari. Nel tennis certe cifre possono essere avvicinate solo da una decina di atleti. La prospettiva di guadagno e di riscatto sociale muoverebbe dunque le scelte dei ragazzi che in campo femminile scelgono il tennis di buon grado e in campo maschile, invece, gli preferiscono altri sport.
Per questo l’ultima e la penultima generazione di tenniste statunitensi è stata rappresentata in modo assolutamente soddisfacente. Da Venus e Serena Williams a Sloane Stephens passando per Coco Gauff e Madison Keys, il movimento ha mostrato grande vitalità. Al contrario tra gli uomini ci si deve accontentare di promesse mai del tutto mantenute come l’ex campione junior Donald Young o prospetti futuribili come Frances Tiafoe. Eppure questa sperequazione andrebbe mitigata dalla considerazione che, prescindendo dalle etnie, il tennis maschile americano arranca da tempo. Non si vede un giocatore di alto livello dai tempi di Andy Roddick.
Una possibile lettura alternativa del fenomeno
Si tratta in ogni caso di una lettura parziale perché si basa sul presupposto che la decisione di dedicarsi ad uno sport sia spinta esclusivamente da ragioni economiche e dalla sicura prospettiva di fare dello sport la propria professione. Accade più spesso che si sceglie una strada sull’esempio di modelli più o meno famosi, con l’idea di emulare i propri idoli. Spesso, inoltre, la decisione di intraprendere un percorso sportivo è motivata dalla genuina voglia di far parte di un gruppo, di ritrovarsi con i propri amici a condividere esperienze. E questo è valido anche per sport prettamente individuali come il tennis.
E’ facile allora immaginare quali siano le traiettorie che orientano le scelte della gran parte dei giovani afroamericani. E’ sui campi da basket che trovano la propria comunità mentre è nei circoli di tennis che sperimentano il velo di diffidenza. Fu proprio Donald Young ad esprimere la sensazione di estraneità che vive nel circuito un tennista afroamericano: “E’ molto difficile perché pratichi uno sport e vedi poche persone come te. Se pratichi un altro sport è più facile relazionarsi, anche su cose banali come la musica. Nel basket gli atleti provengono da un ambiente simile, dunque ci si può confrontare con più facilità“.