Solo la bellezza ci salverà dalla paura, solo l’infinito ci difende dal cinismo. Sarà colpa del disincanto se l’epoca contemporanea rimane nel buio di disillusioni che appesantiscono il futuro. Un tempo rigido, svelto e scettico: nell’era della rapidità è il bisogno dell’altrove a condensare la magia del pensiero che ancora ci fa sentire vivi. L’infinito, come la metafora più tradizionale che ci ha insegnato Giacomo Leopardi – morto proprio il 14 giugno del 1837 – è forse un posto impercettibile che rende la realtà uno stimolo a cui non sappiamo (e soprattutto non vogliamo) sottrarci.
Leggere -rileggere- Giacomo Leopardi è una lezione senza tempo che personifica un pensiero concentrato non soltanto sul vivere quanto più nell’esistenza. Se ogni secolo ha le sue interpretazioni, il pensiero umano riconosce nell’essenza tutta un’universalità senza circoscrizioni temporali. Morale della poesia: ogni millennio avrà il bisogno di imparare a resistere al dolore, esorcizzare il male con la ricerca della bellezza. Nel giorno del suo anniversario, l’omaggio al poeta Giacomo Leopardi non vuole soltanto ricordarlo, quanto più dimostrare come la sua poetica sia il tentativo di dargli una forma concreta. La poetica di Leopardi era piuttosto una filosofia che condensava la sensibilità alla realtà: e fin qui, nulla a che fare con un pessimismo tanto spacciato. Quello che suggerisce tutt’oggi Leopardi è come la letteratura rappresenti il ponte più diretto all’esperienza reale, e il canale di condivisione più empatico. L’intuito di Leopardi chiariva una realtà che si ripresenta medesima ai giorni nostri, perché frutto di una natura a cui apparteniamo irrimediabilmente.
Il negativo a cui viene associato Giacomo Leopardi non è nell’interpretazione pessimista delle cose, ma nell’intuizione di come la conoscenza di esse portino a una verità assoluta che -in molti casi- ci tormenta. Più conosciamo, meno saremo felici. Eppure, è la consapevolezza dell’esistenza che decreta la coscienza di sé. Una poesia pressante delle necessità ci insegna come indagare sulle cose ci libera dalla menzogna di una vita incline all’idea che ognuno ha di se stesso. Tra le pagine di Giacomo Leopardi è questa ricerca che ci spinge a una riflessione più profonda: costruire l’anatomia dell’esistenza per misurare la condizione umana, sapersi riconoscere e solo – così- potersi accettare. In un tempo in cui la natura sembra ricordarci l’onnipotenza che non ci spetta, in cui la fugacità degli eventi ci rendono lontani dalle nostre aspirazioni, è la poesia che ci fa strada nel buio. Una poesia distante, banalizzata o agognata, che invece ci risveglia dal disincanto di un anno che ci ha spento.
Nel 1836 Giacomo Leopardi scriveva la poesia La Ginestra: parole di un’immagine evocativa, la pianta che simboleggia la mortalità dell’uomo. Contemporanea, drastica ma piena di speranza. L’impotenza dell’uomo davanti alla morte, che abbiamo riconosciuto nell’affollamento delle terapie intensive degli ultimi tempi, la dimostrazione della fragilità dei rapporti umani, i bisogni più autentici che svelano la disperazione. Eppure, come nella poesia di Leopardi, è nel punto più basso che si scopre la forza dell’uomo. Una forza che non è potenza, ma solidarietà. Se c’è una catena che ci inchioda al nostro destino, ce n’è un’altra: “la social catena” di Leopardi, che contrasta l’inevitabile, riuscendo a esorcizzare il dolore in un senso di umanità che ci salva ancora. Lì dove la morte distrugge, l’uomo ricostruirà. Come le ginestre che crescono lì dove tutto muore, aggrappandosi alla terra, così l’uomo ricomincerà con l’uomo, a imparare a leggere di nuovo il senso di quello che non c’è più.
[…] Ora un’unica rovina avvolge tutti i luoghi circostanti dove tu hai sede, fiore gentile, e, quasi provando compassione per i mali degli altri, fai salire al cielo un dolcissimo profumo che consola il deserto. […]
La ginestra o Il fiore del deserto, Giacomo Leopardi, 1836.