Me ne rendo conto, non è semplice da metabolizzare. Eppure anche Giacomo Leopardi, una delle più grandi personalità letterarie italiane, passato alla storia come lo studioso per eccellenza, sempre chino sui suoi scritti e perennemente immerso nelle proprie ‘sudate carte’, è stato un “ultrà”. Certo, ora non lo si deve immaginare con la sciarpa legata in fronte come una bandana, ‘scassato ammerda’ di LSD e alcol, oppure armato di uova marce e di mazza chiodata stile Negan, a dirigere cori oltraggiosi contro la mamma dell’arbitro. Niente di tutto questo… almeno credo. Tuttavia non era assolutamente estraneo all’esperienza di andare allo stadio per vedere le partite. Ma le partite di cosa?
Il pallone col bracciale
Pochi sanno che Leopardi era solito prendersi una pausa dal suo studio matto e disperatissimo per dirigersi con la sua carrozza a Macerata o a Treia a seguire il suo sport preferito. Non il calcio, ma il pallone col bracciale, diffusissimo in quegli anni sia in Italia, sia in Europa centrale. Si trattava di una diretta filiazione della pallacorda, nato in epoca rinascimentale e molto diffuso fino al 1920, soprattutto nelle Marche, in Piemonte, Emilia-Romagna, Lazio e alcune zone del Sud. Ma in che cosa consisteva esattamente? Lo scopo del gioco era quello di lanciare una palla in pelle di manzo nel campo degli avversari, facendola rimbalzare su un alto muraglione. Per colpire la sfera era utilizzato un bracciale di legno, caratterizzato da circa 105 spunzoni sulla superficie, che veniva legato al polso di ogni giocatore. Una specie di “muretto” o “battimuro”, in cui si sfidavano due squadre diverse, ciascuna composta da un battitore, una spalla ed un terzino. Il punteggio era simile a quello del tennis. A vincere, ovviamente, era la formazione che sbagliava di meno.
La canzone dedicata a Carlo Didimi
E, come ogni tifoso che si rispetti, anche il genio recanatese aveva un proprio campione del cuore, il celebre pallonista italiano Carlo Didimi, una sorta di CR7 del tempo, amatissimo dalle folle. A lui aveva addirittura dedicato una canzone, dal titolo “A un vincitore nel pallone”, ultimata nel 1821 e pubblicata per la prima volta nel 1824. Cinque strofe, ognuna di tredici versi, in cui viene elogiata la prestanza fisica, l’energia ed il talento dell’atleta (definito qui Garzon bennato), presentato al lettore quasi come una figura mitica ed eroica. Un vero e proprio inno alla virtù ed alla vigoria, contrapposta all’ozio ed alla pigrizia, nel quale Leopardi cela anche un sottile messaggio politico. Attraverso la rievocazione di alcuni episodi dell’antichità classica, come la battaglia di Maratona, l’obiettivo principale è infatti quello di scuotere il popolo italiano, di svegliarlo dal suo torpore etico ed idealistico, di spingerlo all’azione, perché soltanto dalla fatica può nascere la gloria eterna.
Giacomo Leopardi e lo sport
Ora, se il sommo poeta avesse appeso il poster del suo idolo sopra al letto, magari accanto a quello di Lucrezio ed Omero, non lo sappiamo. Sappiamo però che, nonostante tutte le problematiche fisiche, la doppia gobba ed una vita interamente dedita all’apprendimento più febbrile, non rinunciò comunque a farsi contagiare da quell’incredibile ed emozionante patologia che si chiama sport. Una patologia di cui nessuno al mondo può fare a meno, a quanto pare neppure Giacomo Leopardi.
Tartaglione Marco
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