Dicono che il lavoro c’è ma mancano i giovani disposti a lavorare, e tutti si sorprendono. Nessuno si stupisce però che la paga sia di 400 euro per un full time al limite del decente. E allora via, che massa di fannulloni: dicono così? Come hanno fatto per gli studenti, d’altronde: untori se volevano tornare a scuola, scansafatiche se preferivano la Dad. Ma giovani e lavoro: cosa succede se chi dovrebbe credere nella loro motivazione (di chi cresce già disilluso) è invece la mano che nega la fiducia?

Alla base della condizione “giovani e lavoro” c’è una frustrazione storica figlia degli anni Novanta. Il motore finanziario non ha puntato a migliorare la condizione di lavoro ma a far resistere le aziende nel mercato. Questo ha innescato un’esigenza inevitabile: tenere basso il costo del lavoro e lo sfruttamento.  Per la resistenza delle aziende abbiamo sacrificato le dinamiche di un lavoro che, sotto ogni aspetto, determinava la crescita. Allo sviluppo del settore produttivo abbiamo preferito il disimpegno verso i dipendenti. Come dicono, d’altronde: quello che conta è il risultato? Eppure, a queste condizioni, per le nuove generazioni il risultato è un futuro a massimo ribasso. La selezione del personale non ha più la misura della competenza ma quella della convenienza sulla base della disponibilità (propria dei giovani agli esordi) di accettare retribuzioni minime. Da un lato il compromesso tra giovani e lavoro come frutto di un sistema interrotto, dall’altro il peggioramento della qualità stessa del lavoro sulla base della competitività aziendale. Quando il criterio di scelta è influenzato dal mercato più che dalla produttività, lo sviluppo si arresta: il futuro è già vecchio. 

Le opportunità di lavoro sono oggi selezionate dal basso, sulla base di diseguaglianze che generano una frustrazione preoccupante. La competizione si crea su bassi salari in un mercato in continua evoluzione. Ma quel che condiziona i giovani e il lavoro è il ruolo stesso che il settore produttivo sceglie di dargli. Se i giovani sono il mezzo delle aziende di resistere al mercato con minor sforzo oppure se i giovani sono la trasformazione stessa del settore. Il circolo vizioso della resistenza al lavoro non soltanto dimentica i diritti di giovani dipendenti ma non prende in considerazione la dignitosa aspirazione di chi dominerà il mondo del lavoro di domani. È l’idea del giovane pagato a 500 euro a nero che potrà rivoluzionare il settore sterili in cui le aziende cercano di rimanere a galla. È la loro energia, la grinta, il sogno che resiste, la forza, la caparbietà, la passione di chi vuole incominciare a provarci. Ai giovani spetta sperimentare le innovazioni, manovrare il cambiamento, intravedere il futuro. È la lungimiranza di chi è cresciuto nella trasformazione a poter proporre lo sviluppo. I giovani, gli stessi che mandano 67 curriculum al giorno, non sono soltanto uno strumento per “mandare avanti” la propria azienda, ma sono la risorsa primaria per realizzare i nuovi obiettivi. 

La retorica dei giovani stanchi ci indottrina in un sistema sterile che non solo annichilisce le ispirazioni ma invecchia il lavoro. La tossica narrazione dei giovani che rifiutano offerte di lavoro per non sacrificarsi ci orienta in una mentalità che non nega la crescita: dei giovani e del lavoro. L’incontro tra domanda e offerta che esula dalle condizioni e dalla dignità del lavoro è già una questione politica ma che viene ancora omessa. Sarà per questo che discutiamo delle pensioni ma quasi mai dei giovani e lavoro? Passiamo anni a lavorare gratuitamente per una dannosa filosofia della “gavetta” e ci siamo talmente abituati al compromesso che non scegliamo più. Però la sera andiamo sempre a letto stanchi, dicendo ancora “domani si vedrà”. Ma quanto dura, domani?