«Giulietta è un miracolo di equilibrio e determinazione», diceva Tullio Kezich riuscendo brillantemente e telegraficamente a definire la donna, l’attrice e l’intellettuale. Sì, perché c’è molto di più dell’immaginetta stereotipata che negli anni siamo stati abituati ad attribuire a Giulietta Masina: il riduttivo moglie di Federico Fellini è un’estrema e immeritevole semplificazione e stilizzazione di un profilo ben più complesso e articolato, che dal 1994 – anno della scomparsa – ad oggi si è massicciamente diffuso. Se sul piano personale e privato Giulietta Masina è stata l’ancora di salvezza per Fellini nella giovinezza, colei che lo sfamava e gli dava un tetto, con gli anni si è trasformata nella più fidata e devota sostenitrice e sodale artistica di un progetto grandioso e ambizioso. Nel dramma – primo su tutti la perdita di un figlio –, la tenacia di una donna forte, rigorosa e determinata è stata la struttura portante delle relazioni, della ricostruzione e di una ripartenza che guardasse al futuro e ad orizzonti lontani.
Artisticamente, in seguito alle esperienze teatrali e radiofoniche che formano Giulietta sin dagli anni dell’università – si laurea in Lettere – si sviluppano attitudini attoriali che la rendono difforme dal canone delle attrici del momento: goliardica, clownesca, esuberante, venata da una tristezza che da impercettibile può diventare totalizzante. Giulietta sporca i movimenti e le espressioni con una facilità innata, la stessa con cui li rende signorili e candidamente seducenti. I personaggi femminili della produzione felliniana, da Gelsomina a Cabiria, da Giulietta ad Amelia, per quanto vengano cuciti su di lei, spiccano, brillano e diventano iconici – nonostante Masina e icona accostate creino un curioso e affascinante ossimoro -, grazie a un’energia saggiamente dispensata che è propria di una donna forte. Giulietta Masina, è necessario dirlo, combatté vivacemente e giocò d’astuzia perché dopo il successo de I vitelloni (1953) venisse realizzato un film che vedesse lei come protagonista, La Strada (1954), e che le permettesse di dare fondo a tutte le peculiarità del suo stile recitativo. Con Gelsomina, candida, ingenua, buffa, sgraziata e infinitamente buona, condotta lungo la sua via da una malinconia persistente e fatale, Masina arriva al grande pubblico e desta interesse nei grandi artisti che ha preso a modello: Charlie Chaplin, non a caso, dirà: «Giulietta Masina è una delle attrici che stimo maggiormente». Persino Martin Scorsese in più occasioni rifletterà sul ruolo che un personaggio come quello protagonista de La Strada ha avuto sulla sua formazione di giovanissimo cinefilo innamorato del cinema italiano.
Il sodalizio artistico tra Masina e Fellini è esempio, forse l’unico nella storia del cinema precedente agli anni duemila, di un lavoro di scrittura e di messa in scena di squadra in cui l’attrice non viene relegata al ruolo di musa del regista, ma a quello di mente attiva, partecipativa e indispensabile allo sviluppo creativo. Nonostante il nome di Giulietta compaia solamente fra il cast artistico, il suo apporto è centrale, e non a caso il nome dei personaggi femminili – Cabiria e Giulietta – occupa un posto di rilievo all’interno del titolo stesso del film. Non c’è subordinazione, ma la netta e chiara collaborazione di due co-autori che condividono una chiara e analoga idea di arte.