“Ero attratto da armonie molto interessanti, cose che sentivo in Ravel, Ellington, Bartòk“
Un musicista che esprime influenze di questo tipo può mai aver prodotto un’opera gretta o di poco valore artistico?. Queste parole appartengono a Jeffrey Scott Buckley, icona degli anni ’90 e del Rock Alternativo di fine millennio. Jeff Buckley nacque a Anaheim in California il 17 novembre 1966. Figlio d’arte, suo padre Tim era un cantante di origini irlandesi ed italiane che abbandonò la famiglia per cercare fortuna a New York. Sua madre Mary Guilbert era invece una pianista e violoncellista classica, che insieme al patrigno Ron Moorhead lo introdusse alla passione per la musica in generale e per artisti come Led Zeppelin, Hendrix e Pink Floyd. Il suo primo disco comprato fu infatti Physical Graffiti ed ebbe la prima chitarra a 12 anni (una copia della Les Paul di colore nero) decidendo di diventare un cantautore professionista.
Tra il 1986 ed il 1990 Buckley fece la spola tra Los Angeles e New York. Quotidianamente cercò di sbarcare il lunario e di accumulare esperienze musicali in diversi generi del periodo. Jazz, Heavy Metal, reggae, rock, funk n’ R&B e persino il qawwali, una musica devozionale pakistana fecero parte delle sue sperimentazioni. Avvicinatosi al blues e al chitarrista Robert Johnson, Buckley incise la sua primo demo Babylon Dungeon Sessions contenente quattro brani divenuti poi celebri come: Eternal Life, Last Goodbye, Radio, Strawberry street. Dopo il concerto in onore del padre del 1991 alla chiesa di St.Ann di Brooklyn che lo lanciò sulla scena musicale e vari altri celebri come il live at Sin-è; Jeff Buckley adorno dei suoi ascolti ( Led Zeppelin, Nina Simone, Bob Dylan, Van Morrison, Leonard Choen) si apprestò alla realizzazione del suo primo ed unico album capolavoro di cui oggi parliamo, Grace.
Grace di Jeff Buckley è un diamante che culla il fato nel nome
Nel settembre del 1993 ebbero inizio le registrazioni dell’album presso il Bearsville Recording Studio di Woodstock, nello stato di New York. Dopo aver firmato con la Columbia, Buckley scelse liberamente i musicisti con cui incidere in studio. La preferenza cadde sul bassista Mick Grondahal ed il batterista Matt Johnson, sotto la guida del produttore Andy Wallace. I tre non si conoscevano e dopo una sessione di lavoro stupefacente si decise di mantenere l’assetto vincente in quanto si stava assistendo ad un vero “processo creativo”. La composizione si rivelò molto difficoltosa in quanto Buckley riuscì a sbloccarsi solo dopo la morte del padre della sua compagna, l’attrice Rebecca Moore. I costi dell’album superarono il milione di dollari e la sua pubblicazione spostata all’agosto 1994. Nonostante tutto ciò Grace di Jeff Buckley è un diamante. Un diamante che culla il fato nel nome.
Pubblicato il 23 agosto 1994 e composto da 10 tracce, il disco si apre con Mojo Pin. Una ballata delicata formata dai celestiali arpeggi della chitarra di Gary Lucas conosciuto ai tempi dei Gods & Monsters e dai flebili sussurri di Buckley. Canti Liturgici e intrisi di spiritualità accompagnano questa apertura, in sinistri crescendo di stampo Plantiano e di marchio Led Zeppelin. La title-track Grace è una ballata dal ritmo sostenuto e agrodolce sulla caducità del tempo, dell’amore e della condizione umana. Dal ritornello cantilenante e dalle progressioni vocali di Buckley di un’eleganza raffinata per la malinconia, Grace si contraddistingue per l’uso del falsetto, fino al finale ancora una volta dalla disperazione bluesy e dall’esplosione del grido che sembra quasi un canto d’aiuto alla luna o agli dèi.
Profeta e anticipatore a sua insaputa attraverso l’ascolto del passato
Last Goodye dal titolo originario di Unforgiven, è senza dubbio il brano più semplice dell’opera sebbene abbia un testo teatrale e lancinante sull’incertezza dell’amore. Pensato per essere la traccia di punta destinata al mainstream; risulta essere una discreta canzone Pop/Rock in cui in più di ogni altra si respira l’aria e l’atmosfera che si poteva esalare negli anni ’90. Sicuramente Buckley ci ha abituati a ben altri capolavori ma risultando in ogni caso anch’essa di piacevolissimo ascolto. Un esempio è il brano che segue, Lilac Wine. Un’opera d’arte dall’intensità quasi religiosa, una preghiera a lume di candela con Gary Lucas che lo accompagna come in un sogno. Il canto di Buckley sembra quasi sempre un’ode a, un protrarsi in avanti, alla ricerca di qualcosa di oltre, come si guarda l’orizzonte del mare perchè la realtà che abbiamo pare non riesca mai a bastare. Un profeta e un anticipatore a sua insaputa attraverso l’ascolto del passato.
“a metà strada tra metallo ed angeli”
So Real è un brano dal climax claustrofobico, circolare, pur nella semplicità presenta i contorni del labirinto sonoro dal quale non si uscirà. Cupe e perturbanti note della chitarra e gravi rintocchi del basso fanno di questa una canzone ben riuscita nel suo intento. Contorta nella sua ipnosi dinanzi al precipizio. Ma ora è il turno della celeberrima, stra-conosciuta in ogni angolo del globo traccia simbolo: Hallelujah. In un binomio canzone-interprete quasi indissolubile, sebbene sia una cover di Leonard Cohen, Hallelujah ha reso Jeff Buckley un’immagine riconoscibile come testimonianza del panorama musicale di quegli anni ad ogni latitudine e longitudine e a quasi tre decadi di distanza. Una gemma rara, sussurri estatici in una summa massima dalla forma pseudo-divina che in questo brano e in quest’album vengono caratterizzati. Un angolo fatto d’intimità chitarra e voce tramutato nel tempo da segreta confessione interiore ad orazione spontaneamente universale.
L’evocazione nell’attesa tipica dei poeti del decadentismo
Love, You Should’ve Come Over è un capolavoro. Forse la canzone più dotata di ‘grazia’ dell’intero album. Un affresco di quella mancanza che ha sempre riguardato l’artista ed ogni artista. Un intro di organo permette alla chitarra acustica di cominciare il suo giro di accordi dalla serena e avvolgente nostalgia verso ciò che non c’è. Lo spleen e lo struggimento per ciò che si è perso e dissolto. Come Rimbaud o Charles Baudelaire ne “I fiori del male” che dipinse la dimora di un re in un paese piovoso “je suis comme le roi d’un pays pluvieux“; In Buckley con Love, You Should’ve Come Over filtra l’evocazione nell’attesa del ritorno dell’amata e di ciò che si è perduto tipica dei poeti del decadentismo. Con una linea vocale in continuo crescendo, Buckley sublima il dolore e la vita in Arte sospesa nell’eternità del tempo.
Con Corpus Christi Carol entriamo nell’ambito del surreale. A metà strada tra fiaba medioevale ed inno sacro Corpus Christi Carol è la terza cover dell’album, reinterpretazione della canzone di Benjamin Britten. Il soffio in falsetto di Buckley che struttura il brano assomiglia ad un eco che il vento crea nel gelo dell’inverno o da voci di sirene declamanti da regni ultraterreni. Un brano mitologico che racconta la storia di un falco che conduce l’amata dell’artista in un frutteto, e quest’ultimo andandola a cercare la trova accanto ad un cavaliere sanguinante ed una tomba con all’interno il corpo di Cristo.
La chiusura di Grace e la fama che lo rese mito
” Eternal Life è stata ispirata dalla rabbia provocata dall’uomo che sparó a Martin Luther King, dalla seconda guerra mondiale, dai massacri in Guyana e dagli omicidi di Manson.; è una canzone arrabbiata. La vita è troppo breve e troppo complicata ed è inconcepibile perchè la gente che sta dietro ad una scrivania o dietro ad una maschera possa rovinare la vita ad altri esseri umani imponendo la forza sulla base di una differenza di reddito, di colore, di classe, di religione o di chissà cos’altro…”
Con queste parole Jeff Buckley presenta Eternal Life, la penultima traccia dell’album. Eternal Life è grunge allo stato puro. Dissonanza, armonica ed emotiva. Con questo brano carico di risentimento ed elettrica distorsione Buckley si dimostra al passo con i tempi che viveva, nonostante la sua solita estraneità. Ma facendolo aggiunge una quota di rivendicazione politica che band come Nirvana e Pearl Jam avevano ma solo in parte. L’album si chiude con Dream Brother. Una inquietante melodia arabesca della chitarra pedina il canto di quest’angelo il cui destino è segnato. Un monito sognante, un presagio di ciò che sarebbe avvenuto, un coro in lontananza ad avvertire, mentre sale il sincopato ritmo della batteria. Un messaggio ad un amico che precipita nel buio, incantato e criptico; un amico che sembra prendere spaventosamente il volto di Jeff Buckley stesso.
Gli elogi illustri e la tragedia
“ My favorite album of the decade“ Jimmy Page e Robert Plant. “One of the great songwriters of this decade” Bob Dylan. ” Jeff Buckley was a pure drop in an ocean of noise “ Bono Vox
Innumerevoli gli elogi illustri che arrivarono a Grace e a Jeff Buckley. Nonostante il successo commerciale si rivelò inizialmente esiguo, con picchi di apprezzamento in Francia ed Australia, successivamente la sua figura acquistò fama e stimmate da leggenda al livello mondiale raggiungendo più volte il disco di platino. Ciò non evitò comunque l’infausta tragedia che avvenne il 29 maggio 1997 e che alla fine della nostra storia avremmo voluto poter non raccontare. Quel giorno Jeff Buckley decise di tuffarsi per fare un bagno nel fiume Wolf River, affluente del Mississipi; un battello in transito creò un gorgo dal quale il cantante non uscì mai, scomparendo nel buio. I funerali si tennero il 1 agosto 1997 nella chiesa di St.Ann dove la sua carriera era iniziata. Dopo 23 anni, Jeff Buckley è ormai un culto internazionale anche attraverso lo spietato destino che la sua ‘grazia’ fu resa da ciò immortale, non concedendo al tempo di farla appassire.
“quel che conta in ogni cosa – specialmente nella vita, nella crescita, nella tragedia, nel dolore, nell’amore e nella morte. È una qualità che ammiro immensamente. È ció che t’impedisce di distruggere le cose troppo stupidamente. In un certo senso è ció che ti mantiene in vita“ Amazing Grace: Jeff Buckley”, documentario del 2004. Jeff Buckely definiva cosi il concetto di grazia.
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