Ci sono momenti della vita che rimangono stampati in mente, una serie di flash indelebili francobollati nei ricordi. Tra questi, per tutti gli appassionati di pallacanestro, c’è senza dubbio il preciso istante in cui si è venuti a conoscenza della probabile (poi diventata certa) morte di Kobe. Quel maledetto incidente in elicottero in cui sono stati coinvolti anche la figlia Gianna e altre 7 persone. E non è necessario conoscere personalmente qualcuno che ha questo sport nel cuore per sapere con certezza quale sia stata la sua espressione del volto oppure il suo primo pensiero: “Perché proprio a lui?”. Probabilmente la peggior reazione umana possibile ma non c’è da preoccuparsi è stato per tutti così. Ma la motivazione è semplice: Kobe ha fatto sognare intere generazioni. E sarebbe riduttivo, anzi irrispettoso narrare per filo e per segno i momenti salienti della sua carriera cominciando con l’infanzia in Italia, il passaggio diretto High School-NBA, il Three-Peat e il rapporto con Shaq, le interminabili sessioni di allenamento, gli altri due titoli, il terribile infortunio, i 60 la sera del “Mamba Out” ed infine la tragica scomparsa. Anche se queste ultime due hanno in comune la scarica di brividi che ha attraversato il mio corpo. “Kobe è la cosa più vicina a un fratello maggiore che io abbia mai avuto”. Purtroppo queste parole non sono mie ma di Pau Gasol, compagno di squadra di Bryant ai Lakers, e autore della prefazione del libro “The Mamba Mentality” su cui compare questa frase. Ma non era necessario conoscere Kobe di persona per apprendere i suoi insegnamenti, per sentirsi spronati a dare sempre il 200%. È stato in grado di far avvicinare milioni di persone a questo sport, che hanno iniziato ad amarlo e a venerarlo come fosse un dio. E proprio come un dio è immortale perché il suo nome risuonerà in eterno.
Grazie Kobe
Lorenzo Mundi
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