È innegabile, il cinema per bambini e ragazzi è cambiato. Non sono più gli anni Ottanta fatta di cult, grandi menti e commistione di genere. Erano gli anni di pellicole come I Gonnies o I Gremlins, entrambi nati dalla mente fin troppo prolifica di Spielberg come produttore, che due anni prima aveva diretto un altro cult generazionale come E.T.. Oppure, se vogliamo scomodarli, gli anni della fondazione dello Studio Ghibli, che inizia la sua produzione nel 1986 con Laputa – Castello nel cielo. Anche se Nausicaä viene considerato il primo film dello studio, in realtà venne realizzato da Miyazaki prima della nascita dello studio, nell’84. E non sono neanche i pulpissimi anni Novanta con film iconici come Hook (ancora il vecchio Steven), Jumanji, Space Jam e la nuova frontiera dell’animazione che si affacciava nel nuovo millennio, con la Pixar a guidare la carica di una rivoluzione copernicana che da li a poco avrebbe investito il medium tutto, non solo il genere. Evidente come, anche grazie a moti culturali, forti impronte di rivendicazione sociale e la nascita di nuove forme di civitas che tanto si sposano con il digitale, il cinema si sia evoluto e sia cambiato completamente. Come è giusto che sia in ogni epoca.
E, ovviamente, ad essere impressionato a caldo da questi cambiamenti è stato tutto l’ambiente culturale e cinematografico. In particolare, oggetto del nostro discorso, è il cinema per ragazzi e bambini, cinema tanto prolifico e culturalmente fondante quanto, per certi versi, relegato alla serie B della visione critica. Ma il forte impatto sociale ed educativo (ma anche banalmente di crescita ed evoluzione di quegli stessi occhi dolci che si affacciano alla settima arte per la prima volta) erano e restano di fondamentale importanza. E quindi, rispetto a decenni di cinema per ragazzi ormai divenuto icona e poi leggenda, fatto di tanti elementi che oggi non ritroviamo quasi più (la paura, perché non facciamo più spaventare i bambini come ci spaventavamo noi con I Gremlins?), come si è evoluto il Kids cinema oggi come oggi, dove il concetto di gentle parenting è sempre più esteso? Proviamo ad analizzare la situazione attraverso la lente di due pellicole fresche fresche di stampa e sala. La prima, figlia del suo tempo e di questa forma nuova e blandissima di cinema per i più piccoli, ovvero Il magico mondo di Harold. L’altra è una creatura di DreamWorks, studio che ha fatto del twist di genere la sua impronta commerciale e il suo marchio di fabbrica, che torna alle origini della scrittura d’animazione con un film tanto moderno quanto nostalgicamente all’antica: Il robot Selvaggio.
Cosa non funziona ne Il Magico mondo di Harold?
Per parlare de Il Magico mondo di Harold, bisogna partire da un concetto: in realtà, è improprio parlare di cinema per bambini. Il termine più adatto, in generale, sarebbe quello di family entertainment. Intrattenimento per tutta la famiglia. Perché sì, chi accompagna il bambino a vedere il film, deve essere intrattenuto. Ed è esattamente quello che non succede ne Il Magico Mondo di Harold. Ma non accade perché figlio di una scrittura distratta, passiva e scialba. Un modo di intendere il cinema che non allieta neanche le due ore dei più piccoli. Un film, per definizione, moscio. Una pellicola che alimenta un modo di vedere che si è andato a sviluppare sempre di più negli ultimi anni: perché si continua a sottovalutare i bambini? Si continua a pensare che i più piccoli abbiano bisogno di un grande messaggio neanche tanto nascosto, risate forzate e nessun tipo di pericolo. Ma è un modo di pensare che è totalmente fuorviante e lontano dalla realtà. È proprio nelle fasi cruciali della crescita che è necessario insistere su argomenti complessi, che possano istillarsi nella psiche. La paura, la tristezza o la morte sono tratti universali che proprio nelle fasi cruciali della crescita possono lasciare un segno.
Ne Il Magico mondo di Harold, invece, New York sembra essere una città di musica, ricchi premi e cotillon. Non c’è nessuna forma di pericolo lampante, di minaccia o, addirittura, di qualsivoglia dubbio da parte dei personaggi. E da lì, il passo per la pessima scrittura è brevissimo. Ogni personaggio secondario non ha nessun tipo di valore caratteriale, tutti sembrano quanto mai abituati all’idea che possa esistere una matita magica e che accogliere due uomini sconosciuti in casa per una mamma single con un figlio piccolo sia la cosa più normale del mondo. Oltre ad essere un poor writing nella sua forma più palese, è anche un messaggio sbagliato da mandare a dei bambini. L’idea che tutto il mondo sia una festa colorata e ci si possa fidare di tutti, anche di chi alla fine si rivela il cattivo, non è esattamente la cosa miglior da dire ad un bambino. Il Magico mondo di Harold ha questa incredibile capacità di sembrar esser scritto da una IA, ed è quindi da riconoscergli il merito per aver aperto un discorso sull’argomento.
E perché, ancora, si sottovalutano i bambini quando si scrivono dei personaggi? Il magico Mondo di Harold è un’incredibile caso di personaggi che fanno e agiscono “perché sì”. Ogni decisione, visione, dialogo e pensiero non è guidato dalla normale volontà umana, ma da un’inspiegabile mano che dall’alto guida le scelte di ognuno di loro: la mano dello sceneggiatore. E allora lì sì che si può dare estro alla fantasia più sfrenata e far passare come cosa normale, ad una persona comune, il far apparire, dal nulla, miriade di oggetti e veicoli. Ancora una volta, si sottovalutano le capacità celebrali di tutti i presenti in sala, dai bambini ai nonni che li accompagnano. Si sceglie la via più conservativa, quella dei lustrini, degli abbagli violacei e del candido modo di essere (per non dire stupido) di un vacuo Zachary Levi. Evidentemente, l’introdurre temi importanti come l’esistenzialismo e la paura della morte erano un passo troppo lungo per Sony, che ha deciso di abbozzarli soltanto per virare su un vivacissimo e per niente scontato spiegone sul potere della fantasia. Dopotutto, quei due temi non sono i topos portanti di un tropo come quello dei Refugee from TV Land. Proprio no. Guardare Barbie per maggiori informazioni.
Cosa funziona ne Il Robot Selvaggio
E arriviamo invece all’altra faccia della medaglia: Il Robot Selvaggio. Pellicola in uscita nei prossimi giorni per DreamWorks, Il Robot Selvaggio è esattamente quello che un film per famiglie dovrebbe fare: affrontare argomenti profondi, per un pubblico di più piccoli, permettendo anche ai più grandi di imparare. Lo diciamo quindi senza mezzi termini: Il Robot Selvaggio è un film meraviglioso. Attraverso un topos ormai caro al cinema più pop (i robot e le interazioni in ogni loro forma), la pellicola DreamWorks parla di tristezza, malinconia, della paura della morte, della mortalità e di quanto la gentilezza possa essere il carburante della nostra innata umanità. Roz è un robot che si basa sull’accondiscendenza, appunto, ma a contatto con qualcosa di ignoto come la natura, saprà trovare la sua umanità e ritrovare sé stessa. In una sceneggiatura che si rispetti, il personaggio principale ha due obiettivi: uno nascosto, chiamato need e uno manifesto, chiamato desire. E Roz è stata programmata per avere un desire, quello di aiutare gli altri. Ma sarà proprio l’impossibilità di raggiungere lo scopo per cui è stata creata e il trovare un proposito superiore come essere genitore a svelare e a farle trovare il suo need.
La DreamWorks, anche attraverso un comparto artistico quasi commovente, esegue un operazione a cui, in realtà, ci ha sempre abituati. Parla ai più piccoli con una storia dolce, ma comunica anche a chi li accompagna in sala, facendoci ragionare su cosa significhi essere veramente genitori. E, nel mentre, ha la capacità di instillare quella malinconia e quella tristezza quanto mai necessarie ai più piccoli proprio per comprendere cosa siano queste emozioni e come affrontarle. Per tutto il film, in realtà, sottilmente, si respira quell’aria malinconica, quasi di morte, che troverà il suo senso tanto più avanti nel film, con un grande messaggio ambientalista che, finemente, semina tanti piccoli dubbi e tante domande. E Roz cambia, come cambierebbe qualsiasi bambino, perché, proprio come loro, non comprende del tutto di ciò che gli sta intorno. Ma è proprio affrontando quell’ignoto che si cresce, che si imparano lezioni e che ci si forma. E proprio come gli occhi e la voce di Roz, ci si addolcisce, si diventa più umani solo affrontando le emozioni e le paure. Una lezione preziosissima.
In un pezzo meraviglioso di Craig Fehrman sul New York Times intitolato Reading Sad Books Is Good for Your Kids, lo scrittore racconta di come suo figlio si sia interfacciato proprio ai libri di Peter Brown da cui deriva il film. E racconta di come, per la prima volta nella sua breve vita, il figlio sia venuto a patti con la commozione e la tristezza. “Quando gli ho chiesto se gli piacesse il finale, Henry si è sciolto in lacrime. Si è arrampicato sul nostro letto e sul mio petto, il suo piccolo corpo tremava, il suo pianto era così intenso che non riusciva a parlare. Alla fine, è riuscito a pronunciare una sola frase: “Papà, perché ‘The Wild Robot’ deve essere triste?” racconta lo scrittore. Ed è proprio qui che si può riassumere la poetica de Il Robot Selvaggio e la potenza di un film per bambini fatto bene. Se l’arte imita la vita, allora imiterà sia la gioia che il dolore, dandoci però gli strumenti per far fronte a queste emozioni. Prendendoci per mano e guidandoci nel buco nero di sensazioni che, magari, non abbiamo mai affrontato. L’arte diventa la porta d’ingresso al sentiero della vita. Perché, come ci insegna il vero cinema per bambini, non è così spaventoso lasciare il tavolo dei piccoli ai pranzi di Natale. O, perché no, sedersi di nuovo lì per sentirsi di nuovo bambini, ma con la consapevolezza dei grandi.
Alessandro Libianchi
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