The Hateful Eight è l’ottavo film del regista Quentin Tarantino. Con un cast eccezionale, questo western all’antica, ben diverso dallo spaghetti Django Unchained, riesce ad ammaliare i veri appassionati della cinematografia che accettano di guardare un film fatto di reazioni e suspense crescente. In uno scenario quasi claustrofobico, Tarantino mette in scena una storia teatrale in bianco e rosso che si snoda in tempi lunghi e dialoghi tesi affidati ad attori spettacolari capaci di farci stare con il fiato in sospeso per tutta la durata della pellicola.
Ambientato nella seconda metà dell’Ottocento, in seguito alla Guerra di Secessione Americana combattuta tra nordisti e sudisti, il film prende luogo in un Wyoming innevato minacciato da una violenta bufera. I primi personaggi che ci vengono presentati, interpretati da Kurt Russell, Samuel L. Jackson, Jennifer J. Leigh e Walton Goggins, si mettono a riparo presso una locanda dove incontrano il resto del cast, Demian Bichir, Tim Roth, Michael Madsen e Bruce Dern. Gli otto sono costretti ad aspettare insieme la fine della bufera, tra inimicizie, menzogne, sospetti e minacce a canna di pistola e fil di parole.
Gli odiosi otto
Non c’è posto per gli eroi. In questo film Tarantino ha messo a nudo la violenza, il razzismo, l’odio, l’astio e il sadismo che l’essere umano è capace di provare verso i propri simili. Come personaggi abbiamo i classici archetipi cari al genere western: due cacciatori di taglie, una criminale, uno sceriffo, un boia, un messicano, un cowboy e un generale confederato. Tra tutte le interpretazioni, il monologo di Samuel L. Jackson va ad aggiungersi al suo iconico “Ezechiele 25.17”. Degna di nota è Jennifer J. Leigh, unica donna che spicca tra gli uomini e si litiga la scena con Jackson, monopolizzando l’attenzione sul suo personaggio.
La sceneggiatura, che ad uno spettatore alla ricerca di azione immediata può risultare lenta e noiosa, è in realtà un capolavoro di storytelling. Facendo sua una delle regole narrative fondamentali, “show, don’t tell”, Tarantino la rielabora riuscendo a creare uno script in cui lo “show” è tenuto in piedi unicamente dal “tell”. Lo scambio di battute, i discorsi solo apparentemente inutili, la dialettica, hanno l’obiettivo di raccontare i personaggi ed il loro punto di vista, così come di alimentare la suspense che diventa sempre più attiva e violenta verso l’ultima parte del film.
L’ultima diligenza di Ennio Morricone
Non si può pensare ad un western da far entrare nella storia del cinema senza la colonna sonora di chi questo genere lo ha musicalmente reso iconico. Ennio Morricone mette la firma all’accompagnamento musicale che in realtà è il nono protagonista. La sua Ouverture, che inserisce lentamente lo spettatore nell’ambientazione innevata, anticipa il mood dell’intero film e ne riassume l’angoscia e la tensione crescenti.
Un western in 70mm
Cosa hanno in comune il colossal Ben-Hur del 1959 e The Hateful Eight del 2015? L’Ultra Panavision 70. Da grande estimatore del cinema d’altri tempi, Tarantino volle girare in 70mm questo suo capolavoro per richiamare i western “all’antica”, ma soprattutto per rendere un’autenticità fotografica. Infatti, il rapporto 2.76:1 dato dall’Ultra Panavision 70 permette di registrare un fotogramma più grande garantendo maggiore definizione delle riprese. Questa particolare pellicola è quindi in grado non solo di rendere perfettamente in set esterni, ma anche di cogliere la profondità d’inquadratura in interno, evidenziando distintamente scena e controscena, o primo piano e sfondo, facendo sentire lo spettatore nella platea di un teatro.
Una pièce cinematografica
The Hateful Eight è il film più teatrale di Quentin Tarantino. Una pièce cinematografica divisa, come fu per Pulp Fiction, in diversi atti ognuno volto ad approfondire e allo stesso tempo mandare avanti la trama. Non solo fotografia e scenografia riflettono la sua teatralità, ma anche i tempi dilatati e apparentemente più passivi. Gli stessi attori si muovono nel set interno come fossero su un palcoscenico, questo grazie anche alla particolare messa a fuoco sfruttata durante le sequenze di dialoghi, capace di far concentrare l’attenzione dello spettatore sul personaggio o sull’azione senza fargli perdere il filo della scena. Anche l’ouverture di Ennio Morricone richiama il preludio sonoro dei film della vecchia Hollywood, quando nell’introduzione appariva un sipario che si apriva su un’orchestra o sui titoli di testa, come qui accade.
La bufera in agguato
L’ottavo film di Tarantino potrebbe essere descritto come una versione de Le iene condita in salsa western con un pizzico di tensione horror da La cosa di John Carpenter e le atmosfere dei gialli di Agatha Christie. Lo stesso regista, durante la conferenza stampa di presentazione del film a Roma, ha affermato che:
C’è una sorta di relazione simbiotica tra questi tre film e, infatti, potrei definire The Hateful Eight una versione de Le iene in salsa western. Da Carpenter ho certamente ripreso uno stato di profonda paranoia che fa sottofondo e tre elementi cruciali: la neve opprimente, un gruppo costretto alla convivenza forzata e il fatto che tra loro serpeggi una grande sfiducia reciproca.
L’elemento che potremmo definire come decimo ed ultimo protagonista di questa pellicole è di certo la minaccia contro cui tutti ed otto i personaggi devono far fronte: la bufera. Una tempesta fredda, crudele, che non si schiera ed arriva ad insinuarsi fin oltre la porta del rifugio degli otto. La neve è una presenza che i protagonisti si ritrovano passivamente a sfidare sotto forma di fenomeno atmosferico, e la bufera bianca è indirettamente una metafora per la vera tempesta che sta per abbattersi su di loro, questa volta in forma di violenta pioggia rossa.
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Articolo a cura di Eleonora Chionni