Hotel Gagarin è l’opera prima di Simone Spada, già celebre aiuto regia in oltre quaranta lungometraggi italiani, tra cui Lo chiamavano Jeeg Robot e Non essere cattivo. Dopo quasi vent’anni di carriera, il suo esordio non poteva che essere una vera e propria dichiarazione al cinema in quanto fabbrica dei sogni.
La struttura metacinematografica di “Hotel Gagarin”
Protagonista di Hotel Gagarin è Nicola (Giuseppe Battiston), professore di storia con una grande passione per la Russia. Ha da anni nel cassetto una sceneggiatura, Il viaggio di Marta, e per caso cade ingenuamente in una truffa. Un produttore e un onorevole, infatti per incassare i fondi europei delle film commission, sfruttano il progetto di Nicola per un film in Armenia, che mai si farà.
Il regista, entusiasta, raggiunge quindi il vecchio e abbandonato Hotel Gagarin con una troupe improvvisata dalla produzione senza scrupoli. Nicola, ignaro di tutto, cerca realmente di mandare avanti i lavori, ma con una squadra così è quasi impossibile. Il film di Spada, quindi si focalizza progressivamente sui personaggi e sulle loro singole storie: l’elettricista Elio (Claudio Amendola), il fotografo Sergio (Luca Argentero), l’attrice Patrizia (Silvia D’Amico) che in realtà è una prostituta e naturalmente Valeria (Barbora Bobulova), la truffatrice in combutta con il produttore.
Da quando la serie Boris ha avuto il suo immenso (e meritato successo) ormai dieci anni fa, la struttura metacinematografica nella commedia ha assorbito tutto un altro senso. Al di là della rappresentazione grottesca delle maestranze, questa modalità di racconto avvicina al cinema chi fa cinema. Crea cioè complicità, mostrando cosa accade letteralmente dietro la quarta parete, sul set. Non sempre però è una formula che può essere replicata senza intoppi, anzi è sempre più difficile.
Soprese e difetti dell’esordio di Spada
Senza voler rovinare il finale, Hotel Gagarin trova il modo per risolvere una storia che a un certo punto sembra non andare da nessuna parte. È in effetti la storia di un fallimento, di un vicolo cieco, di un sogno infranto. La bellezza del cinema, però, è che i sogni li può creare dal nulla, ed è sufficiente credere in quello per andare avanti.
L’idea non è affatto male, tanto da aver portato a Simone Spada molti riconoscimenti e una candidatura ai David. Tuttavia pecca gravemente nella struttura e nello scopo dei dialoghi, quindi nella costruzione delle relazioni fra i personaggi. Un difetto che forse Spada avrebbe potuto evitare affidando la sceneggiatura a un gruppo più ampio di persone. La sensazione alla fine rimane comunque quella di aver visto un film d’amore, amore per quella macchina complessa e stravagante che è il cinema.
Articolo di Valeria Verbaro
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