Nel 1980 Giorgio Moroder è un’istituzione mondiale del music business. Il fondamentale contributo dato alla nascita della disco music più di un lustro prima , il peso avuto nella Berlino musicale del 77, la duratura liaison artistica con Donna Summer. E poi il cinema, come naturale evoluzione di una carriera che, di fatto, ha creato la colonna sonora di un’intera epoca.

Moroder è già passato all’incasso anche nel mondo delle soundtrack. La sua “Chase”, main theme di “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, proprio un anno prima gli ha fatto ottenere il premio Oscar come miglior colonna sonora. Stesso esito con “Last dance”, pezzo composto lo stesso anno per “Grazie a Dio è venerdì” di Robert Klane.

Gli anni 80 e quella firma che non può mancare

Per ogni grande produzione contemporanea che si rispetti, Giorgio Moroder diventa un must have, come dimostreranno negli anni seguenti cura e composizione delle soundtrack di “Top gun”, “Scarface” e “Flashdance”. “American Gigolò” è un’altra di queste pellicole. Irriducibile machismo USA, il potere istituzionale che stringe le proprie spire sull’innocente, individualismo yuppies in nuce, sfilata di status symbol e Richard Gere. L’intento del regista Paul Schrader è moralizzatore e ha quindi bisogno, per contrasto, di premere al massimo sull’acceleratore in termini di spirito dei tempi. Musicalmente nessuno può essere più efficace di Giorgio Moroder. Il nostro mette assieme un’efficacissima manciata di pezzi propri, qualcosa di soul, rock e un concerto per clarinetto di Mozart.

Ha anche preparato una base musicale nuova di zecca, ideale perché diventi il main theme dell’intera pellicola. Si chiama “Man Machine”. Ha però bisogno di qualcosa in più, magari un contributo esterno che si occupi dello sviluppo melodico del pezzo e dei suoi testi. Qualcosa che lo renda un pezzo universale che possa uscire almeno in parte dalle dinamiche elettroniche e disco che gli sono proprie. Così contatta Stevie Nicks, ex Fleetwood Mac e ora solista di successo, ma lei declina. Però l’idea di affidarsi ad una figura femminile sembra la direzione giusta. Così propone il progetto a Deborah Harry.

Giorgio calls Debbie

Figliastri insoddisfatti e annoiati della precedente scuola folk e freak in cui sono cresciuti, ragazzini punk del Lower East Side e protagonisti attivi di quella rivoluzione permanente che è la scena musicale newyorchese, Deborah Harry e i Blondie sono già delle star arrivate. Nello stretto giro di tre anni (1977-1980) i Blondie hanno pubblicato quattro album e stanno per rilasciare il quinto, “Eat to the beat”. Hanno sfondato nello scorbutico mercato UK prima che il quello patrio e con “Parallel Lines”, terzo LP datato 1978 hanno definitivamente sfondato sul mercato mainstream. “Heart of glass”, “Hangin’ on a telephone”, “One way or another” e “Picture this” sono quattro singoli semplicemente irresistibili e la loro musica lo stato dell’arte di quel grande calderone di rielaborazione di eredità musicali vicine e lontane che è la new wave. Nel 1980 poche cose sono culturalmente più newyorchesi dei Blondie.

E Deborah Harry è un simbolo individuale all’interno del simbolo-Blondie: icona di bellezza, stile e continuo rinnovamento, rimane una cantante e performer eccezionale prima che protagonista di un qualche migliaio di copertine non solo musicali. Moroder con loro non può sbagliare.Tutto sembra andare per il verso giusto, tanto che il produttore e la band si accordano affinchè sia Moroder a occuparsi della produzione del loro prossimo disco. Ma le tensioni all’interno del gruppo gli faranno presto cambiare idea. “Passavano il tempo a litigare” ricorda il produttore “Dopo “Call Me” avremmo dovuto fare un album insieme, ma il primo giorno che entrai in studio con loro il chitarrista stava per mettere le mani addosso al tastierista. Così ho detto al mio manager di lasciar perdere con l’idea del LP”.

“Call me”: il successo

Una tensione umana che è però anche e soprattutto tensione creativa. Mentre Debbie Harry inizia a buttare giù un testo incentrato su una prostituta facendosi ispirare dalle scene della pellicola, il resto della macchina-Blondie cuce strati musicali su strati intorno all’abbozzo scheletrico di “Man Machine”. “Non appena ho sentito Debbie cantare su una demo ancora grezza di un pezzo chiamato “Call me”, ho capito che ce l’avevamo fatta” ricorda Moroder.

“Call me” è pura epica metropolitana, perfetta sintesi delle mille suggestioni che da sempre hanno contraddistinto il sound dei Blondie. E fa immediatamente il botto. Esce in tre versioni differenti ( come main theme della colonna sonora del film, singolo per la Chrysalis, l’etichetta dei Blondie e in versione con il testo in spagnolo) e rimane per sei settimane consecutive in testa alle charts. A fine anno Billboard lo elegge singolo dell’anno e nel 2018 lo inserisce nella classifica all time dei singoli.

Andrea Avvenengo

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