Il concerto di Willie Peyote al Monk di Roma: il Rap in giacca

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Di Rossella Papa

Che sia “più rap, indie, cazzone” poco cambia, perchè Willie Peyote, in ogni caso, al Monk di Roma ha fatti ballare tutti: un concerto Sold out per i giovani, i ribelli e gli ordinari.

Se pensate che un concerto rap vesti solo maglie larghe e fumo passivo, parolacce e trallalà, al concerto di Willie Peyote tocca ricredervi. Un rap vestito di jazz, giacca e jeans, qualche vodka e l’eco della metrica.

Amari
(ph: Valerio Sablone)

Ma prima dell’esibizione elettrizzante del rapper torinese, ad aprire la serata alle 22:00 sono stati gli Amari, che forse ancor prima di Willie Peyote, Carl Brave o I Cani, hanno riscoperto il flow elettro-beat che nasconde l’esigenza narrativa e cantautorale nel ritmo pop e elettronico di un rap contemporaneo.

E così, dopo la prima adrenalina di questi geniali ragazzi di “Bolognina revolution”, Willie Peyote ha tenuto tutto il Monk con i piedi leggeri per quasi due ore, in un concerto che più che il fiatone ridava il respiro. In una scaletta che alternava il vecchio repertorio di ” Non è il mio genere , il genere umano” e ” Educazione Sabauda” all’ultimo acuto album “Sindrome di Tôret”, Willie ha scatenato la chimica e l’energia di un rap che non è velocità ma  ritmo.

Willie Peyote
(ph: Valerio Sablone)

Si muoveva come un grillo, nella sua statura mingherlina e leggera, vestito di rime taglienti e ironiche per verità altrettanto taglienti e non ironiche. Ma è solo un “gioco delle parti”, uno sguardo sullo sfacelo contemporaneo dal tetto e non dal fosso. E dall’alto, si sa, tutte quelle teste sono solo punti geometrici di una costellazione buffa. La tragedia è buffa, la tecnologia lo è, anche la politica, l’amore e il calcio.

E Willie Peyote ce le racconta tutte, in un ritmo che fa ballare anche di frasi tristi, tipo che siamo un paese che “riusciamo a pareggiare anche alle elezioni” , ma se tanto tocca giocare questa partita  tanto vale farlo con il jazz.

Willie Peyote
(ph: Valerio Sablone)

Le belle frasi le hanno dette in tanti, e di buona musica è pieno il mondo, ma Willie Peyote non dice frasi belle su una buona musica, Willie Peyote fa una buona musica con belle parole, e viceversa. La ribalta della metrica? Il ritorno del Jazz? Scontato parlare di avanguardia, Willie è un miraggio in un panorama musicale che ha più categorie che contenuti.

E allora riconosciamo il talento in un normalissimo ragazzo torinese che si chiama Guglielmo Bruno, ha 33 anni, si mette una normalissima t-shirt nera, come quelle che avete voi, ha degli occhiali che non vanno neanche più tanto di moda e quando si fa chiamare Willie Peyote indossa esattamente gli stessi vestiti. E  ieri sera, con i riccioli bagnati di sudore ha ballato con tutti, solo per ricordarci che “siamo uomini liberi”. E al concerto di ieri abbiamo bevuto tutti abbastanza per ricordarci che quando “C’era una vodka” non contava “L’outfit giusto” ma i “Dettagli”.

Finalmente un po’ di energia, un po’ di verità. Finalmente un po’ di rock, funky.  Finalmente la grinta, l’intelligenza, l’ironia: finalmente un po’ di stlie.

Willie Peyote
(ph. Valerio Sablone)

Qualcuno dice che un vero artista lo si riconosce sul palco, io dubbi già non ne avevo, ma posso confermarvi che Willie Peyote è un agile animale da palcoscenico. E questo non vuol dire, attenzione, che sappia ben ballare e far giri  (e comunque se la cava pure con i salti) ma che fa della musica anche una festa.

A parte il sudore, la birra e le sgolate, una cosa l’ho pensata, mentre Willie Peyote cantava tutte le canzoni di “Sindrome di Tôret“,  ed è che la libertà di espressione si reclama solo con l’espressione. E Willie lo fa già, “non per essere il migliore, ma l’eccezione.”

E tu da che parte vuoi stare?

Rossella Papa