“Il Gattopardo” è l’unico libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Scritto con cura maniacale, il manoscritto è stato respinto sia da Mondadori che da Elio Vittorini per conto di Einaudi fra il 1956 e il 1957, anno in cui muore l’autore. Nell’ Italia degli anni 50 infatti, gli anni della ricostruzione post bellica, il romanzo appare anacronistico e decadente, fuori contesto. Eppure quando nel 1958 l’editore Feltrinelli pubblica l’opera, il successo arriva immediato, e consegna alla storia della letteratura sia il libro che l’autore.
Il romanzo vince due volte il Premio Strega nel 1959 e nel 1963, e Luchino Visconti ne trae il film diventato una pietra miliare del cinema, interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon.
Il gattopardo a cavallo fra romanzo storico e saga familiare
“Ho settantatrè anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due… tre al massimo. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare tutto il resto: settant’anni”
Il vero protagonista del romanzo è il principe Fabrizio Salina che si distingue nella società siciliana per il sangue blu, la figura possente e l’aspetto nordico ereditato dalla madre tedesca. Salina a differenza dei suoi antenati è anche abile matematico e astronomo. Queste peculiarità si traducono in una profonda capacità di analisi dell’ambiente circostante che gli permette di capire i limiti della mentalità sicula e prevedere l’evoluzione sociale e politica dell’isola. Nessuno dei discendenti erediterà la sua intelligenza analitica.
La storia
La vicenda si apre nel maggio del 1860, pochi giorni prima dello sbarco dei Mille, ed è ambientata in Sicilia. Viene raccontato il momento del passaggio dal governo dei Borbone all’unificazione italiana dal punto di vista di una famiglia della grande nobiltà palermitana, il cui stemma nobiliare, è un gattopardo. Fabrizio Salina, ha avuto sette figli ma il giovane a cui è più legato è il nipote, figlio di sua sorella, Tancredi, rimasto orfano di entrambi i genitori e del quale il re Borbone lo aveva nominato tutore.
Tancredi è un ragazzo brillante e molto scaltro. Ironico, opportunista come gli uomini della società nuova. Si unisce alla spedizione dei Mille, non certo perché seguace delle idee democratiche e repubblicane, ma perché ha già capito quali sarebbero stati i vincitori e si appresta a saltare sul loro carro per salvaguardare i propri privilegi. In seguito Tancredi trova la sposa ideale nella bella Angelica, una borghese molto ricca e di fatto rozza, nonostante gli studi al nord, ma capace di consentirgli quella tranquillità economica che lui, pur essendo un Principe, di fatto, non ha.
“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”
È questa la frase che racchiude in sé tutto il romanzo, e che gli ha sempre conferito quell’aura di attualità. Anche se la componente storia è forte, a plasmare il romanzo, più che i fatti e gli avvenimenti, sono soprattutto i pensieri del Principe. La sua indulgenza verso la debolezza umana: “non era lecito odiare altro che l’eternità”, il richiamo alla sensualità “pecco per non peccare più”, ne fanno un romanzo esistenziale sulla bellezza e la caducità della vita.
A spezzarne il ritmo, e ricollocarlo nella realtà, sono invece le numerose riflessioni sulla Sicilia, sulla sua storia e sui siciliani. Lo scrittore ne traccia un’immagine viva, animata da uno spirito moderno e consapevole della problematica storica e politica contemporanea. L’austero ed elegante stile narrativo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne fa infine un’opera di grande spessore letterario che merita una lettura attenta in cui il capolavoro non è la storia, ma l’uomo, la sua intelligenza, il suo fascino seduttivo caratterizzato da un animo inquieto e orgoglioso.
Cristina Di Maggio
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