Road to flop ritorna per farsi odiare. Dopo la precedente puntata dedicata a “La leggenda del pianista sull’Oceano“, è giunto il momento di parlare de “Il Gladiatore“. Uscito nel 2000 con la direzione di Ridley Scott, il film si aggiudicò ben cinque Oscar, tra cui quello per il miglior film e il miglior attore (Russel Crowe). Tuttavia, come abbiamo già anticipato nella scorsa puntata, i premi e l’entusiasmo possono non significare nulla dinnanzi alla prova del tempo.
Trama
Siamo nell’antica Roma, sotto il regno di Marco Aurelio (Richard Harris). L’imperatore, ormai giunto al canto del cigno, si affida al generale ispanico Massimo Decimo Meridio (Russel Crowe) per governare le sue truppe, scaturendo l’invidia di Commodo (Joaquin Phoenix), suo figlio, il quale lo uccide per usurpargli il trono. Dapprima schiavizzato, Massimo cercherà di ritrovare la sua libertà distinguendosi come gladiatore.
Tra archetipi e (tanti) stereotipi
Si fa un film d’intrattenimento, per il mercato, con colori superbi, montaggio ed effetti sonori da pelle d’oca, e lo si fa passare per un capolavoro narrativo laddove, invece, descrivere i protagonisti come santi e gli antagonisti come satanassi, appare sin troppo datato. Ecco il vero problema de “Il gladiatore”. E’ la tipica storia di redenzione all’americana. Un uomo perde la propria famiglia e la propria libertà e deve fare in modo di riconquistarle. Nulla di più semplice e – per certi versi – banale.
Seguendo il metodo del viaggio dell’eroe, Massimo Decimo Meridio incarna perfettamente l’archetipo dell’eroe aristotelico. Tuttavia, si fa ben presto a passare da archetipo a stereotipo. Egli guida le truppe romane contro i Marcomanni in Germania, e quello del generale è il suo mondo “ordinario”. L’ingerenza di Commodo lo riporta coi piedi per terra, tramutandolo in uno schiavo bistrattato che deve ricominciare daccapo – guarda un po’ – combattendo. Una storia che nasceva già dai tempi del mito di Eracle (o Ercole), e che sembra esser piaciuta molto agli Americani – costituendo, di fatto, il novanta percento dei loro film -. Il self made man, come lo chiamano loro, non è un’invenzione così recente come vogliono farci credere. I greci ne sapevano già qualcosa in età Dorica.
Un modo antico di raccontare l’antico
Commodo è un disgraziato. E’ uno dei personaggi più negativi del cinema moderno, parimenti a quanto Marco Aurelio, invece, ci appaia come un’incarnazione del Dio in terra. La domanda è: perché? Perché riproporre dei personaggi così stereotipati negli anni Duemila? Si parla sempre di quanto la società di oggi non abbocchi più a certi cliché e poi, come un fulmine a ciel sereno, ci si presentano dei personaggi banali, profondamente divisi tra bene e male e per niente caratterizzati.
Non esiste un personaggio contraddittorio, non esiste uno studio su di essi. Sebbene gli annales abbiano sempre indicato in Commodo un imperatore crudele al pari di Caligola, in questo film egli assume dei tratti quasi sadici e per niente approfonditi. E’ troppo netta la demarcazione tra lui inteso come “cattivo” e Massimo e Marco Aurelio intesi come “buoni”.
Una demarcazione che poteva esser risolta in un modo parecchio semplice, ponendosi un’unica domanda: quale politico ha mai ricevuto solo consensi e quale solo disprezzo? Due politici così antitetici e confinati, risultano irreali. Massimo, con quel suo parlare epico e baldanzoso, diviene l’eroe senza macchia e senza paura che puzza tanto di Medioevo. Massimo è un protagonista antecedente al “romanzo picaresco”. Il Don Chisciotte di Cervantes gli è diverse spanne sopra in quanto a modernità. E parliamo di un’opera del XVI Secolo.
“Il Gladiatore” – Ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare l’epica
Ecco, l’epica. Quando Hollywood aprì le porte alla stagione epica negli anni Cinquanta con “Quo Vadis?“, il pubblico trovò una nuova corrente da seguire. Quel parlare affettato, quelle scene con innumerevoli comparse, con effetti speciali innovativi (per l’epoca) generarono un fenomeno di culto. Era il periodo dei peplum. Tuttavia, già dagli anni Settanta si iniziò a percepire quell’olezzo di stantio. Tutta quella pomposità morì con l’avvento della new Hollywood, più cupa, urbana e realistica.
Pertanto, la domanda che ci poniamo su “Il Gladiatore” è questa: era necessario riproporre un film scritto come durante l’epopea del peplum? Perché qui non si ha nulla di diverso. Un film artefatto, scritto con dialoghi magniloquenti, con scene in pompa magna, che fanno fede solo sugli effetti speciali e i costumi. E poi, come detto, la ciccia, al di sotto di quella coltre di superbia, scompare.
Ma forse Ridley Scott aveva ragione. Gli incassi gliene hanno data parecchia, è vero. Il tempo, però, un po’ meno. E forse è per questo che ci piace parlare de “Il Gladiatore” come una grossa promessa non mantenuta, piuttosto che come un film invecchiato male.
MANUEL DI MAGGIO
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