L’articolo intende aprire un filone d’approfondimento sul jazz, all’interno del quale considereremo le sue evoluzioni e disparate derive stilistiche dal bebop degli anni cinquanta fino ai giorni nostri. Riteniamo fondamentale incentivare la diffusione e soprattutto la conoscenza di artisti, anche di nicchia, ai fini di accrescere un gusto sempre più articolato e godere nell’esplorare i vasti ed impervi confini di questo movimento culturale di assoluta importanza…a volte abusato, storpiato o adottato per dare un appellativo concettuale a ciò che non è d’immediata comprensione.

Il jazz ha fra le sue più spiccate particolarità, quella d’essere un genere meno dogmatico nell’esecuzione e più libero nelle interpretazioni, prediligendo l’improvvisazione nei contesti live e l’ensemble al mero protagonismo individuale. Questi concetti hanno avuto grande espansione e lustro negli anni cinquanta, sessanta e primi settanta dove pionieri del calibro di Charles Mingus, Thelonious Monk, Miles Davis, Stan Getz, John Coltrane…rimangono degli intramontabili maestri.

Dalla seconda metà dei settanta avviene però qualcosa che sembra quasi, per alcuni aspetti, un involuzione espressiva: molti musicisti cominciano ad incentrare i loro sforzi su aspetti maggiormente legati alla tecnica personale creando dischi ineccepibili nelle esecuzioni ma di scarso impatto emozionale conflittualmente a quello che dovrebbe essere sempre il massimo intento di ogni artista, a discapito di tutto il resto…che ovviamente trova le dovute eccezioni ed eccellenze in artisti come Billy Cobham, Weather Report, Fuse One, Yellowjackets, Return to Forever…dando vita alla fusion: un genere ricco di virtuosismo e contaminazioni di stile mantenendo però la forte predilezione all’improvvisazione.

Metropolitan è un magazine giovane fatto da giovani ed è per questo che intendiamo partire esaminando avvenimenti dell’ultimo decennio coscienti però, del fatto che nell’arte il concetto di modernità è spesso dilatato e relativo all’innovazione che ne scaturisce, come nel caso di Gently Disturbed (2008) dell’ Avishai Cohen Trio cui la cifra stilistica è lampante grazie ai suoi protagonisti indubbi prodigi dello strumento. Shai Maestro, all’epoca appena ventenne, fa scivolare le dita fra i tasti bianchi e quelli neri con una consapevolezza disarmante se si pensa che la sua partecipazione è stata una casualità subordinata alla rinuncia in extremis del pianista Sam Barsh, anche Mark Giuliana trova la consacrazione del suo drumming innovativo da questo lavoro in cui non aveva nemmeno trent’anni…e grazie al collante del contrabbassista Avishai Cohen ideatore del progetto e compositore di maggiore esperienza, prende luce questa interessante testimonianza del Nu Jazz priva di vizi di forma.

L’ossimoro nel titolo dell’album si comprende benissimo fin dalle prime note in questo interplay di pregevole fattura con serrati incastri metrici, frenetica dinamica e un gusto medio orientale che fuoriesce dalle radici territoriali di Cohen e Shai. I brani “Chutzpan”, “Eleven Wifes”, “The Ever Evolving Etude” e “Structure in Emotion” portano l’attenzione a livelli notevoli senza però affaticare l’ascolto con autoreferenziali sovrastrutture o snaturando l’essenza sonora, a volte anche minimale, del trio di jazz acustico. In merito ad una recente release parliamo di chi, in realtà, non è per niente una novità…piuttosto una costante, una sicurezza, un istituzione…il reverendo Steve Gadd. La Steve Gadd Band (2018) ha pubblicato il suo ultimo disco appena un anno fa ma è arrivato nella distribuzione Italiana in questo mese e solo nel formato CD, lo preciso perché magari qualcun’ altro come me avrebbe preferito la versione Lp, pubblicata in versione limitata questo aprile per l’annuale manifestazione mondiale del Record Store Day nel mercato americano. Comprare un album dove il batterista è la star non è quasi mai una scelta corretta se si vuole ascoltare la musica e non pirotecniche evoluzioni su sequenze dissonanti…ma quando si tratta di Steve Gadd le cose cambiano…il carisma e lo smalto sono imprescindibili tanto con le bacchette quanto con le spazzole. Questa ultima fatica discografica, alla veneranda età di settantaquattro anni, è l’ennesima testimonianza di grande capacità nel dominare la scena nei più svariati contesti dal rock allo swing passando per la musica latina e non a caso vincitrice del grammy award come Best Contemporary Instrumental Album 2018.

In una rapida carrellata delle tracce presenti Auckland by Numbers ci regala un swing arioso ed emozionante, One Point Five conferma la grande passione per i ritmi afro-cubani e Foameopathy esprime con estrema classe i fondamentali dell’andamento ternario, tema tanto caro a qualsiasi batterista. In conclusione Steve Gadd è stato per molti anni il più richiesto session man sia in studio che live contribuendo ai successi di artisti dalla risonanza mondiale fra cui: Eric Clapton, Paul Simon, Steely Dan, Steps Ahead e Al di Meola…senza dimenticare la splendida tournée con Pino Daniele del 1988 suggellata nella partecipazione all’Umbria Jazz Festival di quell’anno. Lo scienziato Archimede a valle dei suoi studi matematici e geometrici affermò: datemi una leva e solleverò il mondo…beh…se Steve Gadd dicesse: “datemi cassa, rullante, piatto e cowbell e vi darò i colori del mondo” sarebbe comprensibile da chi, del groove, ne ha creato una scienza motivo di approfonditi studi didattici.

Metropolitan Magazine si impegnerà nell’essere presente alla Casa del Jazz in Roma il 15 luglio per il concerto della Steve Gadd Band, riportando immagini e parole ai nostri lettori che non potranno essere presenti ad una serata che si preannuncia molto interessante.