Cosa vuol dire “linguaggio femminista”?
Il linguaggio femminista vuole essere un linguaggio per tutte, tutti e tuttə. Un linguaggio che non esclude nessun individuo. Per farlo si fa carico di un iniziale politicamente corretto artificioso, cioè costruito per non offendere nessuna identità e persona, e che con il tempo si è allargato tanto da divenire un’onda. Una rivoluzione del linguaggio.
Perché tanto impegno? Si potrebbe pensare che ci sono battaglie più importanti, più essenziali e allora mi domando come verranno scritti i manifesti di queste battaglie. Con o senza schwa, quindi con o senza la volontà di convivere insieme alle differenze? Ho avuto diverse discussioni con amici sul tema dello schwa (ə) e quindi del linguaggio ampio, alleati che però vedevano l’uso della schwa come un errore grammaticale o di tempistica.
Oggi rispondo a loro e lo faccio citando il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne di Non una di meno:
Il linguaggio non è solo un’istituzione sociale o uno strumento di comunicazione, ma anche un elemento centrale nella costruzione delle identità, individuali e collettive. […] Consapevoli che le lingue mutano e si evolvono, proviamo a rendere il nostro linguaggio inclusivo per avere nuove parole per raccontarci e per modificare i nostri immaginari. […] dobbiamo costruire una lingua non sessista che riconosca le differenze e non le silenzi nel maschile neutro e universale.
Il linguaggio femminista forza la lingua e la grammatica (ed è un bene)
La lingua è uno strumento di oppressione e la linguistica ne è consapevole. Proprio nel genere grammaticale si manifesta tutto il sistema e il modello androcentrico. Monique Wittig in Feminist Issues scrive che:
il sesso, sotto il nome di genere, permea l’intero corpo della lingua e costringe ogni locutrice a proclamare con le sue parole la sua appartenenza al sesso oppresso, cioè ad apparire nella lingua nella sua propria forma corporea e non in quella astratta, che ogni locutore maschio ha il diritto indiscusso a usare. (Traduzione di Michela Pusterla)
Si può separare il genere dalla grammatica? Nei testi sì, è ancora così, ma questa regola non scritta, questo anatema scagliato contro il linguaggio femminista è solo una parte della realtà. Sono due scuole di pensiero diverse, una più conservatrice e patriarcale, l’altra rivoluzionaria e femminista. Due punti di vista che difficilmente troveranno il modo di percorrere vicini la stessa strada della lingua.
La distinzione tra genere grammaticale, sesso e genere socioculturale
Cerchiamo di descrivere il punto di vista escludente di una certa scuola di pensiero, quella che si appoggia comodamente sulla sedia del “se si è sempre fatto così un motivo ci deve essere”. Questa scuola di pensiero della linguistica ha le proprie radici in concetti e regole chiuse in una gabbia. Sono quelle e basta, nulla può mutare.
Così il genere grammaticale delle parole viene spiegato come “una modalità antichissima di classificazione in base alle caratteristiche sessuali”, dice la linguista Cecilia Robustelli intervistata da Francesco Lepore su Linkiesta. Robustelli cerca di conservare delle regole ben precise, quelle binarie e in altre occasioni ha definito lo schwa come “scopo nobile, ma mezzo fallace”. Perché, secondo questo punto di vista, le lingue fanno difficoltà, cioè diventa difficile capire il testo senza riferimenti grammaticali.
“Parlare delle minoranze sì – dice ancora Cecilia Robustelli su Youtube per Tecnica della Scuola in un’intervista insieme a Laura Boldrini – ma volerle codificare attraverso la grammatica (Ndr. “No” con la testa)… c’è molta differenza”.
Il linguaggio ampio è possibile?
L’altro punto di vista è quello rivoluzionario, quello che vede la lingua mutare dal basso. Di regole antiche non si parla, anzi. La differenza dal primo punto di vista e questo sta nel fatto di non isolare la lingua in una gabbia dorata. La sociolinguistica si muove dal basso verso l’alto ed è nelle piazze fisiche e virtuali che apprende i mutamenti in corso e cercare di concretizzarli.
Superare il binarismo di genere e il binarismo linguistico è possibile? La risposta è sì e non serve neanche fare esempi di studi contemporanei (che farò) ma basta pensare a come la lingua da sempre muta e risponde alla realtà, anche contro quelle antichissime regole grammaticali. Inoltre non è banale pensare che forzare la lingua, cioè codificare un linguaggio ampio sia un valido strumento per cambiare la realtà. Ce lo ricorda la linguista Manuela Manera in La lingua che cambia: “La realtà crea la lingua, ma è anche la lingua a creare la realtà”.
Parliamo allora dello schwa e per farlo utilizziamo le parole di Vera Gheno, che forse non ne è pioniera (come ha voluto ricordare lei stessa) ma sicuramente è la sociolinguistica che lo sta facendo conoscere e utilizzare su larga scala. Usiamo ancora la parola “codificazione” utilizzata da Robustelli per escludere la possibilità che lo schwa venga inserito nella grammatica. Anche Vera Gheno lo sostiene, ma gli agenti di questo ostacolo non sono la lingua e la grammatica, ma i linguisti e i parlanti infastiditi e/o spaventati dalla possibilità che la lingua cambi. E che loro rimangano indietro, aggiungerei.
Il punto da sottolineare è che lo schwa non sostituisce il genere grammaticale maschile e femminile, usati per indicare uomini e donne cis (che si riconoscono come uomini e donne). No, lo schwa aggiunge, fa coesistere il genere neutro con gli altri due.
Il linguaggio femminista è “inclusivo”?
Per rispondere a questa domanda, che viene posta quasi sempre con l’intento di screditare il linguaggio femminista come “linguaggio delle donne”, farò uso della recente maratona organizzata e visionabile sul canale di cimdrp, ovvero di Irene Facheris.
Nel panel dedicato all’importanza del linguaggio, moderato dalla sociolinguista Vera Gheno e al quale abbiamo partecipato come redazione, Rossella Papa ha risposto che no, il linguaggio femminista non è inclusivo. Perché:
Dire inclusivo, per quanto sembri una parola inclusiva, crea in realtà un’ulteriore esclusione. Inclusivo pretende che qualcuno include e qualcuno viene incluso.
Quindi no, il linguaggio femminista non è inclusivo, sarebbe “ricreare una struttura normocentrica”, dove chi include ha il potere di farlo e decide il diverso da includere. Il linguaggio femminista allora cos’è? È un linguaggio ampio, dove convivono le differenze, senza censura, senza sostituzione. Una accanto all’altra. È un linguaggio (anche) politico e ha lo scopo di riunione tutte le differenze contro un sistema patriarcale opprimente. È la lotta, la rivoluzione e non può essere meno importante di un’altra questione sociale, perché la lingua modella la realtà e la realtà modella la lingua.
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Articolo di Giorgia Bonamoneta.