“Il Padrino – Parte III” ritorna sulle frequenze di Rete 4. Con l’occasione, abbiamo deciso di analizzare il film più controverso di quella superba e indimenticabile trilogia.
La trilogia de “Il Padrino” non è una trilogia qualunque. Essa è la trilogia per eccellenza. Per ogni cinefilo, è la trilogia per antonomasia. Parlare di film del genere, il più delle volte risulta un’impresa parecchio ardua, ma, se con i primi due capitoli della saga ci saremmo potuti limitare ad elogiare la perfezione narrativa del Primo e la complessa emotività del Secondo, analizzare il tanto bistrattato Terzo capitolo è come tentare di scalare il monte Everest.
La storia de “Il Padrino – Parte III” inizia con un diabetico Michael Corleone (il personaggio che ci consegnò l’Al Pacino attore), giunto all’età di cinquantanove anni (è il 1979) e pronto al pensionamento, sta tentando in tutti i modi di tramutare la cosca dei Corleone in un’azienda legale tramite l’acquisto dell’Internazionale Immobiliare. Premiato dal Papa con un riconoscimento per il suo fervente cattolicesimo, Michael si ritrova in Sicilia dove viene a conoscenza del marcio che si nasconde all’interno dello IOR, i cui interessi – e quelli del banchiere Frederick Kienzsing (Helmut Berger) – si ramificano proprio all’interno dell’Internazionale.
Gli ostacoli che gli si frapporranno, tra cui il doppiogiochista don Ozzie Altobello (Eli Wallach), il corrotto arcivescovo Gilday (Donal Donnelly) e il politico Licio Lucchesi (Enzo Robutti), metteranno in mezzo anche la sua amata figlia Mary (Sofia Coppola) e il suo nipotastro Vincent (Andy Garcia), figlio nato dalla relazione extraconiugale tra la damigella di Connie (Talia Shire), Lucy Mancini e il defunto fratello Sonny, da cui ha ereditato il carattere. Il tutto si svolge in Italia, durante gli anni di piombo, con il presunto omicidio di papa Giovanni Paolo I (qui chiamato cardinale Lamberto) a fare da sfondo.
Dopo aver letto per sommi capi la trama, ci viene spontanea una domanda: perché questo film è tanto odiato e criticato? Difficile dare una vera e propria risposta concreta. Senza alcun dubbio, tra i tre che compongono la saga, il Terzo capitolo è quello che si pone sotto una logica più esistenziale. Michael ritorna al monologo che fece a Kay al parco nel Primo lungometraggio: il desiderio di legalizzare la cosca. Tale concetto, come dichiarato in diverse interviste da Francis Ford Coppola, era stato appena caldeggiato nel 1972, giacché, la dipartita di don Vito aveva lasciato il campo all’irruenza, alla maniacalità e all’odio di Michael, capace di comandare persino l’assassinio di suo fratello Fredo nel Secondo.
“Il Padrino – Parte III”, in tal senso, cercava di restituire allo spettatore il Michael che affermava “la mia famiglia non mi somiglia” durante il matrimonio di Connie. Coppola, con questa storia di redenzione (termine abusato che qui, comunque, calza a pennello), ha tentato di presentare un Michael che non ha mai accettato di vedersi allo specchio come un assassino, epiteto con cui Kay lo definì e per il quale decise di abortire il terzo figlio. “Non voglio crescere un altro bambino in un mondo di assassini” diceva in una delle scene più intense del Secondo capitolo. Pertanto, nel 1979, dopo vent’anni dall’addio di Kay e dall’omicidio di Fredo, cosa era rimasto nella vita di Michael?
I ricordi. I figli sono cresciuti con la madre e hanno intrapreso strade diverse da quelle del loro papà. Michael vive di ricordi in questo film. Scrive una lettera ai figli dove afferma che loro sono l’unico amore che ha; balla con la figlia Mary e le immagini del suo matrimonio con Apollonia gli ritornano in mente. Apollonia, quello che parrebbe un personaggio di contorno, ha il pregio di presentarsi tanto nel Primo quanto nel Terzo film come il “rovescio della medaglia“: Michael ha vendicato suo padre uccidendo Sollozzo, ma il prezzo da pagare per quella vita è il sangue di una donna amata e ignara di chi egli sia in realtà.
L’evoluzione di Michael presentataci in questo film, a conti fatti, è meravigliosa. Coppola riprende quel giovane e ingenuo studente descrittoci da Mario Puzo sin dal Romanzo omonimo, e ne approfondisce un dissidio interiore molto più logico di quanto ci si possa immaginare. Il tutto narrato in una cornice che spiazza gli spettatori abituati a vedere una New York a tratti scorsesiana, prima ancora che Scorsese arrivasse. L’Italia diventa il palcoscenico perfetto. L’Italia di Gelli, dello scandalo dello IOR, del cardinal Marcingus, della Loggia P2, dei complotti, degli anni di piombo, di papa Luciani. Tutti con i nomi opportunamente cambiati e con gli avvenimenti spostati avanti di un anno.
Lo scenario raccontato tenta di dare un senso all’ipocrisia dell’archetipo del mafioso cattolico, mostrando le due facce di quella stessa ipocrisia (come disse Michael a Pat Geary nel Secondo capitolo). Da questo punto di vista, “Il Padrino – Parte III” risulta molto più audace nel puntare il proprio dito contro la Chiesa. La corruzione dei senatori e del dittatore cubano Fulgencio Batista mostrati nel Secondo film non sono nulla se paragonati alla feroce critica fatta da Coppola all’Italia dell’epoca; il tutto viene condito da Calò il pastore che, nell’atto di uccidere Lucchesi, afferma “Il potere logora chi non ce l’ha“, frase che noi italiani conosciamo bene grazie a un controverso statista la cui ombra, seppur non fisicamente presente, aleggia nell’ideologia tematica di questo film, come un simbolo di quel nostro periodo tanto buio.
Ed è anche vero che proprio Calò si pone come uno delle due incongruenze palesi ai nostri occhi già dall’inizio. Nel romanzo e anche nel Primo film, Calò stava mettendo i bagagli sull’auto dove Fabrizio piazzò la bomba; Apollonia accese l’auto ed entrambi morirono. Appare piuttosto improbabile che sia sopravvissuto. L’altra incongruenza, invece, riguarda proprio Vincent. La storia tra Sonny e Lucy, nel primo film non è approfondita, tuttavia, dal romanzo, è possibile apprendere come Lucy, dopo la morte di Sonny, decise di abortire facendosi aiutare dal chirurgo Jules Segal, con il quale si sposò in seguito. Pertanto, l’esistenza stessa di Vincent è parecchio contraddittoria.
Ma non sono questi i motivi per cui il film è così tanto odiato. Abbiamo tratteggiato i lati positivi dell’intero lungometraggio anche in relazione ai suoi predecessori, ma adesso è giusto il momento di analizzare le vere magagne. E la prima che salta subito all’occhio è l’estrema drammaticità; “tra noi è tutto melodramma” asserisce Michael parlando con Kay, e sembra quasi volersi lui stesso prendere gioco della forte componente melodrammatica dell’opera. Molte scene, molti attimi che vorrebbero far piangere gli spettatori sono stucchevoli e forzati. Ecco, il termine più corretto per definire i passaggi cruciali di questo Terzo capitolo è proprio “forzato”.
La struttura della trama è pressoché identica alle prime due parti della Trilogia, ma risulta appunto “forzata” quando ci si pongono davanti alcuni snodi narrativi. Quello che era il matrimonio di Connie e Carlo, e quella che era la prima comunione di Anthony Vito, qui sono tramutati in una quanto improbabile quanto “pacchiana” premiazione da parte della chiesa cattolica in favore di Michael.
In seguito, seguendo il canovaccio della “discesa e risalita” della famiglia già visto nei primi due capitoli, Coppola si contorce in una serie di sotto-trame che non si compiono come dovrebbero. I tradimenti di Joey Zasa (Joe Mantegna) e di Ozzie Altobello non hanno la stessa potenza narrativa di quanto abbiamo visto nelle precedenti opere, e, senza alcun dubbio, ai fini della storia principale, risultano solo delle aggiunte piuttosto citazioniste, soprattutto quella di Zasa, personaggio che nasce per scimmiottare il gangster John Gotti ma finisce per perdersi in un ruolo macchiettistico, venendo ucciso da Vincent, anche lui un po’ troppo macchietta rispetto alla complessa personalità del padre Sonny.
Fa storcere il naso come Tom Hagen sia stato liquidato con una frase durante la presentazione del figlio prete Andrew, “suo padre è morto prima che lui prendesse i voti”. D’accordo, sappiamo che il motivo fu la non-disponibilità di Robert Duvall a ritornare in quelle vesti, ma quando, nel Secondo film, Frank Pentangeli parlava della morte di Pete Clemenza ne raccontava le cause e andava in giro con una fascia nera in ossequioso lutto. Tom andava onorato diversamente, soprattutto dopo la sua superba scrittura della seconda opera.
Anche l’omicidio di Al Neri appare indigesto. L’idea è chiaramente ripresa dalla morte di Rocco Lampone, tuttavia i due personaggi non sono stati caratterizzati egualmente. Rocco, ne “Il Padrino – Parte II” ha un ruolo da capo-regime, mentre Al Neri interpreta il guardaspalle silenzioso e brutale – è l’assassino di Fredo -. Vederlo morire in quella scalinata non ci dà nessuna giustizia a quella che è la sua stessa esistenza. Al era l’erede di Luca Brasi, ma la sua morte non è in grado di raggiungere l’epica del “è all’uso calabrese. Vuol dire che Luca Brasi dorme coi pesci“.
I personaggi aggiunti per sostituire le mancanze venutesi a creare in anni di sangue non sono in grado di essere equiparati a loro. B.J. Harrison non è Tom Hagen, l’affetto paternale di Michael per Mary appare troppo pieno di piagnistei, ben distante dalla poesia narrata tra lui e la madre Carmela nel Secondo capitolo. In tal senso, la storia tra Vincent e Mary, benché non fallisca nello riproporre l’amore tormentato tra un giovane e rampante boss come lo era quello tra Kay e Michael, avrebbe avuto tutta un’altra risonanza se Sofia Coppola non avesse interpretato tanto male quella parte. Connie, a malincuore, perde la stupenda evoluzione vista nel Secondo capitolo e diventa un’improbabile sostituta di quelli che erano Clemenza e Tessio: i saggi capi-regime.
Il finale, infine, come nei precedenti due film è un “regolamento di conti“. Laddove un tempo c’era il battesimo del nipote di Michael, ora c’è “La Cavalleria Rusticana” interpretata da Anthony. Tuttavia, l’assassinio dei capi delle cinque famiglie avvenuto contemporaneamente appariva molto più sensato. Uccidere contemporaneamente Gilday, Keinszig, Altobello e Lucchesi, situati chi a Londra, chi al Vaticano e chi in Sicilia, mette a dura prova la nostra credibilità. Nel Primo film, per esempio, gli omicidi di Tessio e di Carlo avvenivano cronologicamente dopo quelli di Tattaglia, Barzini (Barrese), Stracci, Cuneo e Moe Greene.
In conclusione, perché questo film è tanto odiato? Molti dicono che tale melodramma fosse evitabile, ma ad avviso di chi scrive non è così. Come conclusione dell’evoluzione di Michael, non poteva esserci un epilogo migliore, soprattutto per la sua solitaria morte che è narrativamente perfetta. Per tutto il resto, per il continuo senso di pesantezza melodrammatica, questo film risulta un’occasione sprecata. Un disperato tentativo di agguantare quanti più spettatori possibili con una tristezza forzata.
Alcune pessime scene e interpretazioni hanno giocato un terribile tiro mancino all’opera. Sofia Coppola si eclissò dal mondo della recitazione dopo la pessima prova fornita in questo Film, mentre, per le pigre scelte di regia e di scrittura, vale la pena citare il terribile dialogo tra Michael e don Tommasino in Sicilia. Girato con una surreale e piatta camera frontale, recitato male da Vittorio Duse (Tommasino) e scritto in modo troppo sempliciotto.
Tuttavia, “Il Padrino – Parte III”, sebbene sia un film problematico, soffre di un unico e terribile difetto: l’eredità. I seguiti non sono mai facili da realizzare, si sa. E se “Il Padrino – Parte II” riuscì egregiamente a brillare di luce propria (in giro, diversa gente lo considera addirittura superiore al suo antesignano), lo stesso non si può dire per il terzo e ultimo atto della saga, il cui unico peccato è appunto l’incapacità di ritagliarsi un proprio ruolo, divenendo troppo autoreferenziale e finendo per vivere all’ombra dei suoi predecessori, cercando di sfruttare le idee che li resero grandi.
“Il Padrino – Parte III” rimarrà per sempre una delle opere più controverse della cinematografia mondiale. Una delle più dibattute. E forse è anche questo suo alone da film non-riuscito che restituisce un’epica tutta sua a quella che è senza dubbio la trilogia più importante e famosa del grande schermo. Due film maestosi e indimenticabili, e uno un po’ più claudicante che diviene altrettanto indimenticabile a modo suo. Perché “Il Padrino” è, e sarà sempre La Trilogia.
MANUEL DI MAGGIO
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