un racconto, qualche riflessione e svariata poesia
Ricucirò le tue ferite con un ago di platino. Lo bagnerò nel fuoco.
Verserò tra le fessure del tuo dolore polvere di diamanti, userò un filo di zaffiri.
Perché tu sappia che i tuoi (s)fregi sono l’opera d’arte di una donna.
Perché tu sappia che le ferite che ti ho causato, il mio medicarti e la tua cicatrice sono l’umore di una donna.
L’amore di una donna che si è fatta opera, operazione ed operato.
“Buonasera amati spettatori, che piacere avervi ancora con noi; mamma, nonna, grazie di essere tra le mie fans più accanite, questa sera parliamo di…oh oh oh, (voce di Luca Ward) amoreeeeee”.
Seduta a gambe incrociate sul divano, denti ancora non lavati, pigiama mood on, drummino alla mano e mani sulla tastiera: “dai Vi, di questo parliamo? Non mi sembra una buona idea, non è il tuo caro diario, stai scrivendo per Metropolitan Magazine…dai Vi, scriviamo di Freddy, scriviamo di Michele Mari, scriviamo della Wendling”
Surprise me by an orgasm, baby!
I’m hunting emotions and you have them in your (pockets) wallet.
Feed me like a (pussy) doggy, petting me like I were a rare fabric!
Rare, yes, let me feel (rare).
Iniziamo con il racconto del principe, ovvero di quella volta che stavo per diventare Donna:
Una volta ho dialogato con un principe. Ero vergognosa ed intimidita; sentii dentro l’immotivata paura di sbagliare avverbi e congiuntivi, mi sorpresi a controllare se fossi dritta nella postura. Tuttavia avemmo una bella conversazione.
Successe anche che mi ritrovai a parlare con il Don suo cugino e, chissà come, capitò che addirittura ci intrattenemmo a vicenda per lunghe giornate. Mi avvicinava la sedia al tavolo, mi apriva le porte dei taxi, quando lo prendevo sotto braccio, s’impettiva tutto e leggevo nei suoi occhi una sorta di circospezione che non mi faceva mai avvicinare più di tanto, lasciandomi pensare che forse ai nobili occorre sempre dar del lei, pure che vorresti dargli del tu.
Conosceva le buone maniere e le aveva insegnate al suo cane di piccola taglia; ogni qual volta mi incontrasse diceva buongiorno o buonasera, scodinzolando come conviene, e ricordo molto bene di quella particolare circostanza in cui andando, proprio sull’uscio, mi congedai: “Arrivederla” scatenando una serie di latrati che non seppi spiegarmi. Accompagnandomi fuori dalla porta il nobile cugino mi espose: “Vedi cara, il mio cane ha abbaiato perché gli ho insegnato a denunciare l’ignoranza ed il tuo modo di salutare non è corretto. Affatto corretto. Non si può dire “arrivederla”. Annuii pensosa e, seppur contrariata, ringraziai per le utili correzioni che, non si sa mai, dovessi un giorno salutare un monarca. Imparavo molte cose utili, da una parte mi facevano sentire una selvaggia naive, dall’altra mi intrigavano poiché mi sembrava di apprendere un linguaggio segreto.
Ho imparato soprattutto quello che non si fa
Capitò un giorno che passeggiassimo su Viale Trastevere, al Don venne da starnutire e prontamente aggiunsi in coda: “Salute!” allorché egli, con molta sobria serietà mi apostrofò nuovamente.
“Ma perché, non si dice?” e mi spiegò che tra loro nobili non si usa questo gergo popolare e che io ero libera di fare ciò che volevo, seppur riteneva giusto mettermi al corrente di cosa fosse esatto o meno.
Un’altra volta ci recammo per colazione in un buon ristorante e, servite le pietanze, ebbi la sconsiderata idea di augurare: “Buon appetito”. Purtroppo non sapevo nemmeno questo! Giammai dire buon appetito, di cattivo gusto veramente.
I giorni passavano veloci e molto cheti, non c’erano mai discussioni accese o grandi risate di cuore, non si beveva alcool e si mangiavano le verdure al vapore, spesso tritate. Conobbi i suoi amici e, tra tutti, ne ricordo uno; indossava sempre la camicia, lavorava fino a molto tardi e ci invitava a mangiare in posti eleganti. Pagava spesso per gli altri commensali. A quanto mi dicevano, erano molto affiatati ed intimi, tuttavia nei mesi in cui si protrasse la mia frequentazione con il nobile Don non ebbi modo di conoscerlo veramente, nonostante lavorasse a pochi isolati da casa sua e si scopò la mia migliore amica.
Succedeva spesso che io dicessi delle stupidaggini; temo succeda a tutti, ma a ripensarci ora mi sembra di averne dette davvero molte e di vario genere, forse perché ricordo piuttosto bene la risata di quest’uomo, la sua sincera sorpresa e preoccupazione nei miei confronti, poiché, appunto, ero così sciocca.
Mi mostrò anche i suoi quadri, ed uno me lo regalò per compleanno. Era l’icona di un uomo perfettamente al centro, con una pipa in bocca da cui rivoli di fumo rivolettavano verso l’alto. Insieme a quello mi comperò anche un libro: “È facile smettere di fumare”.
Ringraziai, lessi e non smisi.
Aveva studiato arte in Inghilterra, ed il loft di cui era proprietario, adiacente Piazza Venezia, era allestito alle pareti dalle sue stampe in bianco e nero; omini iconici e sperduti in infiniti vuoti, lacerati da architetture acute, linee rette che circuivano figure senza occhi, né nasi, ma a volte con becchi lunghi ed adunchi. Nessuna curva mai. Li osservavo instupidita, perdendomi nel significato del minimalismo, nei suoi tratti contratti, che chissà cosa c’era dietro.
Il tempo è galantuomo e dopo otto mesi facemmo una gita a Napoli; iniziò il distacco. Non disse nulla, aspettò. (Il tempo) Aspettò che tornassimo a Roma. (È) Non successe niente. Ma fu corretto con me; quando gli chiesi se fosse accaduto qualcosa, mi rispose: “No, no. Sicuro, di sicuro niente”.
Galantuomo.
Era evidente che ormai fossi davvero considerata una sciocca.
Gli raccontai cosa mi dicesse mio papà quando ero piccola e lui concordò sulla saggezza di tali parole.
Il giorno che me ne andai da casa sua dovetti pregarlo di aiutarmi con le valigie e gli chiesi dunque di posticipare l’impegno che aveva per aiutarmi. Non ci siamo detti nulla, era presente anche il principe suo cugino quando arrivò il taxi, non vi fu lo spazio per le smancerie, anche nell’ora dell’addio restò sobrio e disinteressato. Mentre ero in viaggio ripensai al dialogo che avevo avuto con il principe, tempo prima, ovvero all’inizio del racconto di cui sopra.
Mi disse che per lui non aveva significato il titolo nobiliare con cui era nato e che quello che ci rende principi è il valore che diamo all’esistenza altrui. Disse, parafrasando, che è l’attenzione con cui ci si rivolge al prossimo, la capacità di entrare in empatia con l’altro, l’umiltà, la generosità. Non la generosità economica che ci permette di offrire delle cene vegane, ma la volontà di darsi all’altro ponendosi sullo stesso piano umano. Il coraggio di affrontare i propri sentimenti e l’onestà di confessarli, la gentilezza, la modestia.
Sempre meglio una brutta verità che una bella bugia, dice papà
Una buona Regina suggerisce, chiede e domanda, consiglia e mormora distratta. Questo la rende buona. Ma ciò che la rende Regina è il potere di ordinare, celato dietro amabili maniere.
Scignori e scignore, bene, lo spettacolo tratto alle “Memorie di Mimin” è giunto a conclusione, cominciate a lavarvi i denti e accendete la termocoperta, mamma metti la crema, nonna togli la dentiera, auspico a tutti un sereno giovedì mentre vi lascio sulle note di…
Bella stronza, classe 1995
A volte vediamo di più di quello che c’è perché ci facciamo coinvolgere dalla banalità degli archetipi. A volte, spesso a dire il vero, proprio perché quegli archetipi vorremmo smembrarli. E in un modo o nell’altro è perché ne abbiamo bisogno, in quel momento, quel preciso idilliaco momento di illusione. D’altronde l’illusione e la fantasia sono gli ingredienti del prestigio, e chi non vorrebbe che la propria vita fosse un prodigio?
ps: si, sono consapevole di aver citato Marco Mengoni.