Oggi l’ultima replica de “Il Ribelle” al teatro Trastevere di Roma. Lo spettacolo di Gian Marco Montesano e Leonardo Rossi, interpretato sul palco da un intenso Umberto Marchesani. Ecco la nostra recensione di questo inno al pensiero e al coraggio di dire no.
Un’immagine de Il Ribelle al teatro TrastevereIl Ribelle: dopo averlo annunciato, lo abbiamo visto questo spettacolo che porta in scena tanti temi. Dal progresso “giusto” alla democrazia dei “professionisti borghesi dell’opposizione”. Dalla libertà alla profezia del canto di Parsifal. Uno spettacolo che si ispira al Trattato del Ribelle di Ernst Jünger, saggio socio-politico del 1951 che si chiede quali siano i compiti che spettano agli uomini liberi quando si impone una tirannia. Un testo definito da Helmuth Kiesel (professore di letteratura dell’niversità di Heidelberg) la “Magna Charta” della disobbedienza civile in un’epoca di governo parlamentare. Ed ecco le impressioni suscitate dalla visione di questa pièce interpretata da Umberto Marchesani. E dalla sua voce vibrante.
Chi è il Ribelle?
Rombo di motore. Musica (rock). Ciak. Azione. Si apre così la prima scena de il Ribelle. Sul palco ci sono un uomo, il ribelle appunto, e la sua pistola. E poi da un tavolo fa capolino una testa (del bravo Oscar Strizzi) che verrà messa a tacere simbolicamente in una scatola, ma che in realtà non si zittirà mai. Perché il nostro protagonista ci colloquierà fino all’ultima scena, come ogni uomo fa con la sua coscienza.
“Lui è lì, dentro una stanza. Circondato dalla musica.
Una musica celestiale lontana, ma così vicina; lui si interroga, si scava, si fa del male.
Ma potrebbe trovarsi anche dentro una trincea, fumando una sigaretta, appoggiato a un muro decrepito, con il fango fino alle ginocchia.
Lui siamo noi, siete voi, sono io o sei tu. Siamo tutti. Lui è un ribelle”.
Inizia così lo spettacolo di Leonardo Rossi, con un Ribelle impegnato in un monologo che a volte si fa dialogo. Un essere umano consapevole di non far parte dei più, di quelli che si riconoscono nelle regole che governano la società. E che per questo assume il piglio disincantato e anche disperato che ricorda il protagonista de Il Lupo della Steppa di Herman Hesse.
Quest’uomo tiene in mano una pistola e potrebbe o vorrebbe suicidarsi. Ma così diventerebbe anche lui funzionale al sistema. Meglio di no. Meglio ragionare su tutto, fare tutto a pezzi, osservare, sondare. Guardare in controluce e comprendere. Si ma cosa? In realtà, tutto: gli scontri generazionali, gli scontri finti, gli scontri dialettici e anche i conflitti erotici, “umani e molto umani”.
Il Ribelle e la sua profezia
Il Ribelle lancia tutto sul pavimento per cercare di leggere le profezie, con un tono un po’ filosofico e un po’ postmoderno che tutto smonta e rigira per capire meglio. Si aggira sul palco alla ricerca di risposte.
Alla fine trionfa la figura dell’anarca, un re, un modello, un operaio del mondo che lo costruisce nel silenzio della foresta, ascoltando una musica che viene da lontano e che lo proietta ancora più in là. Quella musica capace di offrirgli attimi di pace e di sicurezza.
Cosa ne verrà fuori da tutto questo scavare? Forse che la via di salvezza è l’arte?
Per ognuno potrebbe esserci una risposta diversa. Perché lui siamo noi, siete voi, sono io o sei tu. Siamo tutti. Lui è un ribelle. E c’è un ribelle in ognuno di noi. Che può e deve dire di no.
Federica Macchia