Affondare nei propri passi e arrendersi persino alla libertà di camminare: una partita a tennis con lo spettatore. Vi raccontiamo In Exitu, in scena al Teatro Palladium
Cala una rete da tennis appena si illumina la scena. Lo spettatore è avversario (adversus) di Roberto Latini. La partita rintocca i colpi, rovescio dopo rovescio, fino all’epilogo (noto) del protagonista. La partita si completa ma non vince nessuno.
Nel foglio di sala di In Exitu c’è una citazione di Marcel Proust “i bei libri sono scritti come in una lingua straniera cosicché ogni lettore, sotto ogni parola, può mettere il proprio senso o almeno la propria immagine” e questa verità Roberto Latini se la cuce addosso per tutta la durata del difficilissimo adattamento del romanzo dello scrittore di Novate Milanese, Giovanni Testori.
Il linguaggio, da lì parte la sperimentazione di Latini: si affida alla raffica di sconnesse frasi mozzate del protagonista (il tossico, Gino Riboldi) narrando la disperazione estrema mentre percorre il palcoscenico sull’impervio percorso di cinque materassi distesi sul palco. Il passo, l’andatura e il disequilibrio si impiastricciano alla narrazione, alla voce rauca e rotta, ai milanesismi e ai latinismi, alle parole troncate e alla pienezza delle parole violente, blasfeme, alle luci secche e aride (calibrate ad arte da Max Mugnai), alla scelta di una scenografia pallida che racchiude un’anima nella consistenza leggera di lenzuola sventolanti sulle note piene di musiche perfette, intime, segrete (frastornanti atmosfere di Gianluca Misiti).
Tutto questo impasto, apparentemente caotico o cacofonico, genera invece una limpidezza trasversale che inchioda, nella lunga rielaborazione del protagonista, lo spettatore a soffocare nell’avanzato stato di desolazione che è il magma puro del romanzo testoriano: un respiro interrotto, un’eco che riverbera come un mal di testa che non ti lascia stare, la puzza di piscio e sborra, il calpestio dei piedi indifferenti, i ricordi sventrati dal dolore e l’accidente annidato dietro la timida richiesta d’aiuto.
E poi c’è la città, Milano, in questa ultima notte: una città “contristata” e “derelitta”, dove “Lì, è. Lui (nessuno)”. Dove appaiono fantasmi sotto botta di droga e si racimolano “dane’” facendo pompini. Dove i treni partono e giammai arrivano. Dove tutto è oscurato dalla consapevolezza della morte, proiettata come un’ombra gigante davanti alla sofferenza. Dove si prende coscienza della finitudine: In exitu è il “vivere-per-la-morte” heideggeriano (La morte sovrasta l’esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta, Essere e Tempo).
Roberto Latini disintegra ogni possibilità di lasciare lo spettatore distratto ad inseguire trame tratteggiate o pensieri di evasione: si resta lì, avvinghiati all’attore che sproloquia sofferenze e agita un bastone (il suo microfono-feticcio) calpestando il pavimento che lo risucchia ad ogni passo e masticando crudeltà subite. Non c’è spazio per pensare, non immediatamente, non c’è tempo per elaborare, tutto si consuma e tutto si sgretola nello scoccare frenetico dell’ennesimo grido di pietà.
Poche le immagini teatrali, poche le invenzioni drammatiche, tutto ruota sull’interpretazione possente e sfiancante e sulla parola, essa stessa frantumata e risucchiata (letteralmente sul finale) come l’anima morente del tossicodipendente omosessuale Gino Riboldi. In Exitu è il grido disperato di un uomo che arranca alla ricerca del colpo giusto per ferire la propria anima.
Teatro Palladium, Roma 11 ottobre 2019
IN EXITU
Prima Romana
dall’omonimo romanzo di Giovanni Testori
adattamento, interpretazione e regia Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
produzione Compagnia Lombardi Tiezzi