Intervista a Lidia Ravera: il valore della differenza

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Di Giorgia Bonamoneta

Lidia Ravera è una scrittrice e giornalista italiana, ma prima di tutto è una donna e come tale osserva il mondo. Impossibile non citare il libro-culto di una generazione con la quale Ravera si è fatta conoscere: Porci con le ali.
«‘Cazzo. Cazzo cazzo cazzo. Figa. Fregna.’ Leggi, e pensi che non ritroverai mai più l’innocenza dell’opera prima, quell’assoluta libertà, effetto collaterale dell’incapacità di immaginare un pubblico. Scrivevi ancora per te» (L. Ravera dalla prefazione di Porci con le ali, 2005 – quinta ristampa).

Lidia parla come una rivoluzionaria, mentre l’ascolto immagino un mondo diverso. Io, a confronto di questa donna, sono una femminista da tastiera. Il mio sguardo moderato si incrocia con quello di Lidia Ravera, un’anima ardente. Ci dice: “io aspetto che una generazione di gagliarde ragazze, sull’onda del movimento delle donne, arrivi a sbaragliare, rovesciare il tavolo e provare a giocare a un altro gioco”. Così inizia la nostra intervista.

La quarta ondata

Le ondate del femminismo sono come onde che si spingono in avanti per poi tirarsi indietro? Le onde si tuffano in avanti, verso la spiaggia della parità, ancora e ancora. È un movimento infinito?

«Vedo bene qualsiasi tipo di onda che muova la superficie stagnante del presente, ma bisogna pensare lungo e lavorare con costanza, con la consapevolezza che è una rivoluzione dal profondo, non è un maquillage di superficie. Il problema non è guidare il jet, fare il prete ed essere il 50% in politica per cooptazione dalla parte maschile. Mi sembrano piccoli risultati, non è quello l’obiettivo, non lo era neanche nel femminismo degli esordi degli anni ’70.
Io sulla spiaggia della parità non me ne frega proprio niente di approdarci. Voglio l’equipollenza, l’eguale valore nella diversità, io voglio che l’universale non sia più maschile, ma che ne esistano due di sguardi sul mondo. Voglio la valorizzazione della differenza, ma non voglio la parità, non voglio l’omogeneità, non voglio annullarmi sul modello maschile».

Vuol dire che il movimento deve ripartire dalla differenza?

«Il movimento non si è mai fermato. Lo vedo un po’ come un fiume carsico che ogni tanto si inabissa e poi ogni tanto torna fuori. È disordinato, ma non si è mai interrotto. Il movimento è disperso in mille rivoli, in mille formazioni diverse, ma – dice Ravera – bisogna pensare lungo e ribattere colpo su colpo. Pensare lungo vuol dire leggersi un po’ delle cose belle che hanno prodotto le donne della mia generazione e soprattutto quelle della generazione prima della mia […] e poi progettare una battaglia profonda, quella per la vittoria della differenza e non del contentino e, contemporaneamente, ribattere colpo su colpo».

Il nostro paese sembra ancora in una fase di integrazione delle donne, più che di inclusione. Hai parlato di “contentino”, secondo te le donne sono ancora un dato fuori posto, una quota da aggiungere?

«Dobbiamo rifiutare i contentini, gli omaggi superficiali, le carrierine. Dobbiamo puntate ad essere considerate l’altro sguardo sul mondo, l’altro soggetto della storia, che ha pari valore del soggetto maschile. Se prendiamo per universale il maschile, noi finiamo definite una mancanza comunque. 
Quello che vorrei è che si cominciasse a cavalcare la nostra diversità, anche nel modo di fare politica, nei tempi, nel linguaggio, nel rapporto con l’emotività, nel rapporto con le gerarchie, nelle relazioni amorose, umane, nelle famiglie».

La quarta ondata apre le porte agli uomini. È un femminismo più moderato? Sembra che l’unico femminismo valido oggi sia quello moderato, gli altri vengono indicati come “radicali”, “estremi” e “tossici”. Dobbiamo conciliare le richieste e la rabbia per essere più incisive, in che modo? Lo domando a Ravera, ben consapevole della risposta ribelle che otterrò e penso che me la sono cercata.

«Bisogna essere feroci, io non credo nel moderatismo. Io penso che gli uomini vanno divisi in quelli che sono interlocutori e quelli che non lo so. Il patriarcato esiste, gli uomini sono incoraggiati a tirare fuori il peggio di sé e non vengono mai massacrati quando dovrebbero, quindi non è il momento di usare i guanti.  Non è odiare gli uomini, ma gli uomini devono capire. […] Bisogna percepire che loro sono da 2000 e passa anni privilegiati, sono consapevoli del loro privilegio e lo usano contro di noi. Le donne in politica usano un po’ troppo poco il loro essere donne, imparano la lingua degli uomini, perché sanno che se imparano a parlarla avranno anche loro la loro fettina da sotto-sottosegretaria».

Ravera e l’azione politica del movimento

Immaginiamo di non usare guanti, cosa dovrebbe succedere?

«Vorrei che le donne irrompessero nella politica italiana con la forza di un’onda anomala, travolgendo le regole del gioco e imponendone delle altre, quelle che noi vorremmo. Per esempio una diversa idea di potere, un diverso linguaggio della politica, diversi obiettivi e forse l’ipotesi di un mondo diverso da quello in cui viviamo, e migliore, per il quale combattere.
Dovrebbe essere come un’andatura diversa, un modo diverso di camminare e pensare a una politica completamente rivoluzionata, ma le donne che dovrebbero travolgere il mondo della politica e fare irruzione nel parlamento italiano devono arrivare lì sull’onda del movimento delle donne, non cooptate dagli uomini».

Parli di politica e famiglia, ma sappiamo che uno dei primi ostacoli da abbattere è la disparità del mondo del lavoro. Il dilemma è sempre quello: se lavori e non hai figli sei colpevole della diminuzione delle nascite, se sei madre e non lavori non partecipi alla società. La donna è sempre colpevole?

«Sì, la donna è sempre colpevole. La grande battaglia da fare è la conciliazione tra maternità e lavoro. Perché c’è ancora una domanda che viene fatta alle giovani donne, una domanda indegna, incivile, cioè chiedere di scegliere tra la carriera, la realizzazione di sé e la maternità. Nessun essere umano può essere messo di fronte a questo tipo di aut-aut. Invece andrebbe messa (la donna) in condizione di fare entrambe le cose senza rimetterci».

L’affermazione della differenza come valore

Ci viene insegnata la differenza fin dai primi passi in questa vita. Colori, giochi, abiti, gusti di lettura, cinema e sport. Tra maschietti e femminucce si delinea immediatamente la “differenza in generi”. Fin da bambine veniamo cresciute con l’idea che matureremo prima dei nostri coetanei maschi. A maturare sarà il corpo, ma anche il nostro atteggiamento sarà considerato ed obbligato a essere più adulto. “Sei una signorina adesso”, ti dice la nonna. “Sei pronta per sfornare bambini”, dice la società. E l’uomo, l’uomo è un ragazzino fino ai 30 anni. Perché questa retorica, questo luogo comune, funziona così bene?

«Le donne sono offese dai cliché fin dalla nascita. Ancora adesso: se sei sessualmente libera sei una troia, se sei chiusa sei frigida, se sei bella hai fatto carriera andando a letto con tizio e caio etc. Discende tutto dal fatto che non veniamo considerate persone, noi siamo considerate oggetti e non soggetti. I femminicidi sono il rifiuto degli uomini che le donne siano soggetto desiderato, che possono amare e smettere di amare».

La terza barricata

Non faccio in tempo a domandarle di cosa si occupa in questo momento, Lidia mi anticipa. Parla sicura e porta un messaggio per il futuro: “Parto da me”, dice.

«Io da un lato mi sento sempre sulla barricata, sull’ultima barricata. Secondo il pensiero femminista del “partire da sé” io parto da me e lotto contro il razzismo anti età che le donne subiscono in maniera molto dolorosa. Io sto combattendo quella battaglia lì, con tutti i mezzi che ho a disposizione. Io scrivo, quello posso fare, non ho altre barricate e quella è una battaglia che faccio da oltre 10 anni, scoprendo sacche di infelicità femminile molto profonde ed estese».

«La vecchiaia per gli uomini è un periodo della vita come tutti gli altri. Invecchiando diventi sempre più ricco, più potente, spiritoso, e affascinante. Perché? Perché sei una persona e le persone, quando si riempie la gerla d’esperienza sulle loro spalle, spesso migliorano. Per le donne non è così, perché siamo schiacciate sul modello dell’oggetto del desiderio, quindi dobbiamo avere dai 20 ai 35 anni per tutta la vita, possibilmente essendo carine».

«Io sento su di me il disprezzo, il cono d’ombra che per le donne comincia poco dopo la menopausa fino a dopo la morte. Se uno va alla fonte di questa discriminazione capisce che c’è qualcosa di molto profondo: se le donne vengono consideraste natura e non cultura, invecchiare vuol dire inaridire come l’erba, come un campo di grano. Inaridisci, non migliori. L’uomo è considerato cultura, l’uomo può crescere finché non chiude gli occhi per sempre, può migliorare».

“Chiamatemi scrittrice”: femminismo e cultura

Lidia Ravera è l’autrice di più di 30 libri e nella sua lunga carriera difende il termine “scrittrice”.

«Le donne anche adesso sono corteggiate dagli editori, questi hanno scoperto che sono le donne a leggere i libri, molto più degli uomini e allora pubblicano molto più volentieri scrittrici. Dopo di che le scrittrici vengono considerate meno degli scrittori.
Ci sono tante piccole discriminazione anche nel mondo della cultura, in realtà molte scrittrici si offendono quando vengono chiamate scrittrici. Dicono ‘io sono uno scrittore’. Sembra quasi che “scrittrice” sia un termine che sminuisce, se sei brava sei al di sopra, invece no. A me fanno un po’ ridere, perché invece io sono una scrittrice, perché scrivo con tutto il mio corpo, con la mia esperienza del mondo, con il mio sguardo sul mondo, che è uno sguardo differente. Io sono una scrittrice».

La ringrazio, ci salutiamo. Mentre trascrivo la nostra chiacchierata telefonica mi sento un po’ più ribelle.

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Articolo di Giorgia Bonamoneta