Musica

Jeff Buckley, “Una goccia pura in un oceano di rumore”

Artista maledetto. Destino segnato. Morte misteriosa. Le vite di molti, forse troppi, artisti ci vengono raccontate con queste espressioni. È anche il caso di Jeff Buckley, scomparso nel 1997, ad appena 30 anni, in circostanze mai chiarite, tra le acque del Mississippi. Leggendo la sua biografia, può sembrare in effetti che qualcosa di tragico lo abbia accompagnato sin dalla nascita. Eppure se guardiamo il sorriso gentile o ascoltiamo la voce vibrante e commovente di Jeff Buckley, non riusciamo ad associarlo a quelle etichette.

E, dopo tutto, sono proprio il suo viso angelico e la sua musica straordinaria che hanno continuato a farlo vivere, sino ad oggi. La sua opera/testamento è Grace, unico disco che l’artista ha potuto pubblicare in vita: contiene, tra le altre canzoni, anche la memorabile cover di Hallelujah di Leonard Cohen. Il repertorio di Buckley è inevitabilmente ristretto e frammentario, ma include anche degli album postumi. In occasione della ricorrenza della sua nascita, ripercorriamo insieme la breve ma significativa carriera di Jeff Buckley, figlio d’arte di Jim, nonché uno dei cantautori e musicisti più acclamati degli anni ’90, da critica, pubblico e colleghi.

Tim e Jeff Buckley, due destini segnati

Jeffrey Scott Buckley, in arte semplicemente Jeff Buckley, nasce il 17 novembre del 1966 ad Anaheim, nella contea di Orange, in California. È figlio unico di Tim Buckley, cantautore e musicista di origini irlandesi e italiane, tanto geniale quanto fragile. Tim è un padre assente. Inizia la sua carriera proprio nel 1966, quindi lascia la moglie ancor prima che Jeff venga al mondo. Il piccolo Jeffrey trascorre l’infanzia con la madre, Mary Guibert, il patrigno Ron Moorhead e il fratellastro Corey. Il padre biologico incontra il figlio solo poche settimane prima di morire per overdose a 28 anni, nel 1975.

Tim Buckley se ne va via senza sapere che diventerà una leggenda del rock e che un destino simile toccherà anche al figlio. Le figure del patrigno e della madre, sono fondamentali per la crescita personale e musicale di Jeff. La madre è una pianista e violoncellista classica. Il patrigno lo introduce all’ascolto di artisti quali Led Zeppelin, Queen, Jimi Hendrix, The Who e Pink Floyd. Lo stesso Jeff, ricorderà che è Ron a regalargli il suo primo disco, Physical Graffiti dei Led Zeppelin. Il gruppo hard rock dei Kiss diviene presto uno dei suoi preferiti. Già all’età di 5 anni, Jeff inizia a suonare la chitarra acustica e a 12 decide che vuole diventare un musicista.

Jeff Buckley, Last Goodbye, 1994

Jeff Buckley, gli studi e l’esordio al club Sin-E’

Nel 1984 Jeff si diploma alla Loara High School di Anaheim. Durante gli anni dei suoi studi, suona in un gruppo jazz della scuola e si appassiona al progressive rock e a band come i Rush e i Genesis. Lascia poi il paese natale, per andare a vivere da solo a Hollywood. Qui si iscrive al Guitar Institute of Technology e a 19 anni completa il suo corso di studi. Pur apprezzando lo studio teorico, in un’intervista alla rivista Rolling Stone, definisce in seguito quell’istituto come “la più grande perdita di tempo”. Tra il 1986 e il 1990 l’artista, per mantenersi, lavora in un hotel a Los Angeles, suonando intanto la chitarra nel circuito musicale locale. Nello stesso periodo, si esibisce in tour con il musicista reggae Shinehead.

Nel febbraio 1990 Jeff si trasferisce a New York: qui inizia una carriera solista, suonando nel circuito del Greenwich Villane. Si rende noto soprattutto per la partecipazione a un concerto tributo in onore del padre, di cui interpreta Once I Was. Le sue prime esibizioni avvengono al Sin-E’, un piccolo club dell’East Village di New York. Terminata la gavetta, nel 1993 Jeff ha la possibilità di registrare con la Columbia il suo primo EP, Live at Sin-E’, inciso dal vivo al club. L’album contiene solo quattro tracce. Due sono cover, Je N’En Connais Pas La Fin di Edith Piaf e The Way Young Lovers Do di Van Morrison – e due sono suoi pezzi, Mojo Pin ed Eternal Life.

Jeff Buckley, cover di Grace - photo credits officialbrand.it
Jeff Buckley, cover di Grace – photo credits officialbrand.it

Grace, il testamento artistico e spirituale del cantautore

Per promuovere il suo primo disco, Live at Sin-E’, Jeff parte per una tournée nel Nord America e in Europa. Ottiene un discreto successo, così la sua casa discografica (la Columbia Records) avvia una campagna promozionale per il prossimo disco. Si tratta di Grace, unico album completo ed unico pubblicato quando l’artista è ancora in vita. Uscito nell’agosto del 1994, Grace rivela tutto il talento del 28enne Jeff, come cantautore e come musicista polistrumentista. Suona personalmente infatti molti strumenti: chitarra, harmonium, organo e dulcimer. Si aggiungono Mick Grondahl al basso, Matt Johnson a batteria e percussioni, Michael Tighe e l’amico Gary Lucas alle chitarre.

La tracklist comprende 10 brani (nelle pubblicazioni postume si trova anche la bonus track Forget Her). 7 testi su 10 sono scritti da Buckley insieme a Lucas, Tighe, Grondahl, Johnson e Sheton. I restanti pezzi sono 3 cover: la personalissima e toccante versione di Hallelujah di Leonard Cohen, Lilac Wine, originariamente interpretata da Hope Foye e il canto tradizionale Corpus Christi Carol, composto da Benjamin Britten. Le atmosfere di Grace sono un crescendo drammatico. Le canzoni sono malinconiche, intime, intense. Il disco testimonia tutte le diverse componenti e matrici musicali proprie di Jeff: folk, rock, pop, soul. Seppur a tratti acerbo, Grace rappresenta il vero e proprio testamento artistico e spirituale del cantautore californiano. Da buona parte della critica, Grace è stata definito una pietra miliare della discografia mondiale.

Jeff Buckley, videoclip ufficiale di Hallelujah, 1994

Grace, tematiche, influenze e accoglienza della critica

Molte delle canzoni di Grace, ruotano attorno alla complicata relazione tra Jeff e l’attrice americana Rebecca Moore. La title track e Last Goodbye, per esempio, sono rivolte direttamente all’amata e incentrate sulla separazione da lei. All’interno del disco, si parla anche di fragilità emotiva, passione, religiosità, oscurità e morte. Grace è definito dalla critica musicale un album audace e controcorrente. Tuttora è considerato tale, se pensiamo che in quegli anni dominavano il panorama musicale il grunge e il rock. È un album imperniato quasi tutto sulla voce di Jeff Buckley, dolcissima, angelica, vibrante, ma a tratti anche graffiante e piena.

All’interno di Grace possiamo individuare molteplici influenze, tutte filtrate attraverso uno stile molto personale: dai Led Zeppelin a Van Morrison, dallo stesso Tim Buckley ad altri grandi nomi del passato, come Nina Simone, Bob Dylan e Èdith Piaf. Anche illustri artisti hanno espresso il loro parere sul capolavoro di Jeff Buckley. Jimmy Page, per esempio, ha definito Grace “il mio disco preferito del decennio”. Il successo di critica ottenuto dal disco è enorme: molte riviste specializzate lo inserirono tra i migliori album del 1994. La rivista Rolling Stone lo piazza 303º posto nella lista dei 500 migliori album di sempre. Molti sono gli artisti che hanno dichiarato di essere stati influenzati da Jeff Buckley e dal suo unico vero album: tra gli altri, Coldplay, Damien Rice e Muse.

Jeff Buckley, videoclip ufficiale di Forget Her (1994)

Jeff Buckley, Sketches for My Sweetheart the Drunk 

Dopo l’uscita di Grace, Buckley trascorre gran parte del 1995 in tour, tra Europa, Stati Uniti e Australia. A causa della stanchezza dovuta al continuo viaggiare, Jeff sta lontano dalle scene per un lungo periodo, tra il ’96 e il ’97. Si giustifica dichiarando: “C’è stato un momento della mia vita non troppo tempo fa nel quale potevo semplicemente esibirmi in un café e fare ciò che mi piaceva fare, suonare musica, imparare esibendomi, esplorare cosa significasse per me, cioè divertirmi mentre irritavo e/o divertivo spettatori che non mi conoscevano. In questa situazione avevo il prezioso e insostituibile lusso del fallimento, del rischio, della resa. Ho lavorato duramente per mettere insieme queste cose, questo ambiente di lavoro. Mi piaceva e poi mi è mancato quando è sparito. Quello che sto facendo è semplicemente reclamare tutto questo”.

Terminati i tour, Jeff Buckley inizia a comporre brani per un nuovo album. Le registrazioni iniziano a metà del 1996 in uno studio di Manhattan. Per la sua seconda opera, il cantante prevede un doppio album e sceglie il nome My Sweetheart the Drunk. Il tema predominante è l’amore. Il disco però resterà incompiuto, per la morte prematura di Buckley. In sede di pubblicazione, al titolo viene aggiunto Sketches for (“abbozzi per”), proprio per enfatizzare la veste grezza e incompleta dei demo che compongono il disco. Il secondo album di Jeff esce postumo nel 1998. La cura e la distribuzione di Sketches for My Sweetheart the Drunk sono curate dalla Columbia Records e dalla madre dell’artista, Mary Guibert. La donna, gestisce tuttora il patrimonio artistico ed economico di Jeff.

Jeff Buckley, videoclip ufficiale di Grace, 1994

Jeff Buckley, morte e carriera postuma

La sera del 29 Maggio 1997, Jeff Buckley si sta dirigendo presso gli studi di registrazione. È a bordo di un furgone, guidato dall’amico roadie Keith Fotie. Mentre passano lungo le rive del Wolf River, affluente del Mississippi, con la città di Memphis sullo sfondo, chiede all’autista di fermarsi. Vuole prendersi una pausa, ha voglia di fare un bagno. In precedenza ha già nuotato in quelle acque. Si immerge però completamente vestito e con gli stivali. Arrivando fino ai piloni del ponte dell’autostrada, canticchia il ritornello di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. Nello stesso momento transita un battello e si crea un gorgo. È probabilmente questo a risucchiarlo e travolgerlo fatalmente. Scomparso dalla vista dell’amico, Keith chiama subito la polizia. Ma è tutto vano: la polizia, pur ordinando un dragaggio della zona, non trova nulla.

Il corpo di Jeff Buckley è ritrovato solo il mattino del 4 Giugno. Le indagini stabiliscono che il cantante non era sotto l’effetto di alcool né droga. In un comunicato ufficiale, la madre del cantante dichiara che la morte del figlio non è stata “misteriosa” e che Jeff è rimasto vittima di “annegamento accidentale”, perché era in un “ottimo stato mentale prima dell’incidente”. I funerali del giovane cantautore si celebrano il 1° Agosto del 1997 a Brooklyn. Dopo la morte, vengono pubblicati diversi album postumi di Buckley, come Mystery White Boy, Live a l’Olympia, Live at Sin-é (Legacy Edition), Grace Around The World. Nel Novembre del 2015, viene annunciata l’uscita della compilation You and I, contenente cover di Bob Dylan, Sly e The Smiths e materiale inedito registrato nel febbraio del 1993.

Jeff Buckley in uno scatto di Kevin Westenberg - © Kevin Westenberg (artwave.it)
Jeff Buckley in uno scatto di Kevin Westenberg – © Kevin Westenberg (artwave.it)

Di Jeff Buckley non dovremmo ricordare l’uscita di scena, ma il suo ingresso nella leggenda

Jeff Buckley, dopo la sua prematura scomparsa, diventa oggetto di un vero e proprio culto da parte dei fans, che vedono in lui la figura dell’artista maledetto e misterioso. Come era già successo con artisti come Jim Morrison o Kurt Cobain. Forse non sarà mai fatta chiarezza sulle reali dinamiche e ragioni che hanno portato incontro alla morte il cantautore californiano. Nessuno potrà mai dire cosa passasse esattamente per la testa di Jeff Buckley nel momento in cui ha scelto di fare quel bagno nel fiume. Nessuno potrà mai sapere cosa ha provato quando ha capito che per lui la fine era arrivata. E forse non è nemmeno così necessario, in fondo, indagare ancora.

Quello che si dovrebbe ricordare di Jeff Buckley non è la sua uscita di scena, ma il suo ingresso quasi immediato nella leggenda. Che è avvenuto soprattutto grazie alla musica che ci ha lasciato. La migliore definizione per un artista come Jeff Buckley, così disperatamente appassionato, è forse quella che ha fornito Bono degli U2, poco dopo la sua morte: “Jeff Buckley era una goccia pura in un oceano di rumore” (Mojo Magazine, agosto 1997). Certo, sentire i versi di Grace dopo la sua morte, mette i brividi: “La pioggia sta cadendo e credo sia giunta la mia ora”. O ancora “Non ho paura di andarmene, ma va tutto così lentamente”. Tutto quello che possiamo sperare, è che davvero non abbia avuto paura di andarsene. Di sicuro, la sua musica non se n’è mai andata.

A cura di Valeria Salamone

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