Compositrice, chitarrista, pittrice e poetessa, Joni Mitchell (Roberta Joan Anderson) nasce in Canada il 7 novembre 1943. Una “hippie lontana dagli hippie”, come l’hanno definita, e una tra le prime cantautrici a sfondare nel terreno della canzone intima, è ancora oggi considerata come l’icona femminile di maggior ispirazione per moltissime artiste. Se c’è una cosa che possiamo dire, su Joni Mitchell, è questa: non ci fa sentire sole (e soli, ma soprattutto sole). La sua vita ci insegna che c’è sempre una strada da cercare, ma alla fine la strada non è mai una sola.

Joni Mitchell e l’inizio del viaggio

Joni Mitchell nasce già con qualcosa da cercare. Sente subito, sin dalle scuole medie, di avere qualcosa da dire, qualcosa da scoprire. Il suo viaggio comincia con la spinta di un insegnante di inglese: “se sai dipingere con un pennello, sai anche dipingere con le parole”, le dice. Joni, una dodicenne che fino a quel momento si era misurata soltanto con la pittura e aveva preso poche lezioni di pianoforte, si accende: le cose si possono dire, oltre che vedere. Le cose si devono dire, diventerà poi.

Da ragazza si iscrive all’Alberta College of Art, ma frequenterà soltanto un anno. I soldi erano pochi, le circostanze sfavorevoli, e Joni scopre di aspettare un figlio dal suo fidanzato dell’epoca. Lui non era pronto a diventare padre, e lei non avrebbe potuto contare su nessuno. Inizia forse da qui, in questa parentesi di sofferenza, il vero lungo viaggio di Joni Mitchell, per una vita alla ricerca di quel qualcosa di più.

Joni è costretta ad abbandonare la scuola e, rimasta senza nulla, incontra Chuck Mitchell, l’uomo che l’aiuterà a risollevarsi e che sposerà quasi subito dopo il loro primo incontro. Decidono, e Joni Mitchell ha ben poche altre scelte, di dare in adozione la bambina nata nel 1965. Le due, Joni e Kilauren Gibb, si incontreranno di nuovo negli anni ’90. Alla figlia, Joni dedicherà “The River”.

Joni Mitchell e il successo

Il matrimonio con Chuck non va bene. Dopo un breve periodo passato a cantare insieme nei locali di Detroit, ottenendo anche un discreto successo, la relazione naufraga. Joni Mitchell, spostata a New York e alla ricerca di fortuna, incontra David Crosby: sarà lui a spingere per far pubblicare alla Reprise Record il primo album della cantautrice, “Song to a seagull”, che uscirà nel 1968.

Joni Mitchell, con la sua delicatissima voce da soprano e quella vulnerabilità visibile e sognante, piace. Arrivano i primi incassi e le prime cover delle sue canzoni- si veda “Both Side Down” cantata da Judy Collins. Il primo vero successo arriva poi con il secondo album, “Clouds”, grazie al quale Joni riceve il Grammy per “miglior performance folk”. Anche “Ladies of the Canyon”, uscito nel 1970, conquisterà tutti. A Joni Mitchell non piacerà mai quest’etichetta, folk, ma quello era al momento: un grandioso successo e una ragazza piccola, un po’ fragile, che faceva folk.

Joni Mitchell in “Blue”, l’album confessionale

Il successo non le fa bene. Joni Mitchell sente su di sé il peso delle aspettative, ma anche e soprattutto il peso di sé stessa. Joni non è felice. Scrive “Blue”, forse uno dei primi album cantautorali intimi e quasi del tutto autobiografici, per togliersi di dosso la malinconia. Blu come la tristezza, blu come il nome del suo amante, blu come il mare della ricerca di Ulisse.

Blue” è un album che fa male: la delicatezza della voce di Joni si esprime in una lunga confessione malinconica che non ha paura di raccontare la vita com’è. In un’intervista, Joni Mitchell dichiarerà che tutti i cantautori uomini a lei contemporanei, la temevano. Dicevano: “dobbiamo farlo anche noi, adesso?”. Sì, perché Joni Mitchell piaceva davvero tanto, anche se a detta dei colleghi, le canzoni erano troppo autobiografiche. “Nessuno si riconoscerà in quello che scrivi”, dicevano. E forse avevano davvero solo paura di doversi misurare anche loro, con quel nuovo modo libero e vulnerabile di fare le canzoni.

È la solita, vecchia storia, no? Uomini che sanno meglio di te, cosa è meglio per te, anche se stai facendo la cosa migliore che un essere umano può fare: liberarti delle cose che ti fanno sentire piccola. Ma i temi di Joni Mitchell non sono femminili, sono universali: c’è la ricerca vana della felicità, un senso penetrante di malinconia, ma anche desiderio di far meglio, di cercare sempre nuove strade che possano salvarci e farci dire: alla fine, non è poi così male stare qui.

Il periodo di ricerca, il ritorno al folk e l’abbandono delle scene musicali

Dopo “Blue”, la strada di Joni Mitchell passa per altri amori, altre influenze, nuovi viaggi. Prima approda al jazz con l’album “Hejira”. “Scrivevo i brani mentre viaggiavo da sola in macchina attraverso gli Stati Uniti, per questo motivo non c’è il pianoforte in queste canzoni”, dichiara in un’intervista. Poi si sposta sulla musica elettronica con “Dog eat dog”, uscito nel 1985.

Joni Mitchell poi ritorna verso sé stessa con l’album “Turbolent Indigo”, uscito nel 1994. Ancora folk e confessionale, la vede in copertina ritratta come Van Gogh. Si compone di dieci brani in cui l’artista si confronta con temi non solo personali, ma anche sociali. C’è Dio, c’è l’amarezza, c’è l’onestà. Ma c’è anche critica sociale, per esempio in “Not to blame”, dove già Joni affronta il tema della violenza domestica, oppure in “Sex Kills”. È un album maturo, come forse lo è anche Joni, figlio di tutte le strade che hanno portato la cantautrice fin lì.

Dopo “Turbolent Indigo”, che ottiene un enorme successo, Joni Mitchell si ferma per un po’. Escono alcune raccolte, tra il 1994 e il 2007, anche se Joni non sembra interessarsi più alla musica, o meglio: sente di aver dato tutto. “Voglio concentrarmi sulla pittura” dirà poi. Dichiarerà anche di sentirsi nauseata dall’ambiente musicale e dalle case discografiche, forse sotto una pressione che era diventata insostenibile.

Torna nel 2007 con un nuovo album, “Shine”, sua ultima produzione inedita. E alla fine, anche se ci ha fatto spaventare per quella brutta malattia nel 2015, oggi Joni sta bene. La immaginiamo nella sua casa, in pace. Speriamo che si ritrovi soddisfatta di tutte le mille strade che ha intrapreso, e che alla fine abbia trovato un significato nel proprio percorso, così come speriamo di trovarlo anche noi, sotto la luce delle sue canzoni.

Immagine di copertina © Hedi Slimane

Marta Barone

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