Cultura

Joseph Conrad: la tenebra siamo noi

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Catabasi, dal greco κατάβασις, “discesa negli Inferi”. Il racconto di Joseph Conrad è un viaggio nella coscienza.

Per un secondo o due ebbi l’impressione di partire non per il centro di un continente, ma per il centro della terra”. Charles Marlow risale il fiume Congo su un vaporetto, alla ricerca dell’avorio. È il protagonista di “Heart of Darkness” (“Cuore di tenebra”, 1899). Joseph Conrad ha compiuto la stessa impresa nove anni prima, in pieno Colonialismo britannico. La risalita diverrà una discesa, morale e psicologica, nel cuore più tenebroso dell’Africa. Un topos che recupera Omero, Virgilio, Dante, Goethe. Marlow racconta la sua avventura ai marinai che attendono con lui il cambio di marea, sull’imbarcazione Nellie, ormeggiata in un’ansa del Tamigi. Citazione letteraria: Nellie Dean è la narratrice di “Wuthering Heights” (“Cime tempestose”, 1847). Anche qui un racconto nel racconto.

Un battello attraversa un corso d'acqua, circondato da una verdissima foresta.
Heart of Darkness – Photo credit: rubbishpenmanship

Che cos’era il continente africano per l’opinione pubblica inglese? Un luogo selvaggio, desolato, dimenticato da Dio. Le immagini erano apocalittiche: lingue impenetrabili, malattie. Una macchia nera sul mappamondo. “In mezzo all’incomprensibile che è pure detestabile. E ha anche un fascino che a poco a poco agisce […] il fascino dell’abominio”. Fascino. L’Europa si attrezza dal punto di vista medico e penetra con battelli e vaporetti attraverso i corsi d’acqua. Comincia ad annusare che lì dentro può esserci qualcosa d’interessante. “Avremmo saputo domare quella cosa muta o sarebbe stata lei a dominarci?”

Conrad è un abile direttore di fotografia, crea atmosfere, non si accontenta del facile esotismo. Gioca con i contrasti: bianco/nero, luce/tenebre, per descrivere due mondi che vengono a contatto e finiscono per distruggersi. Ecco il binomio di allora: “noi”, civilizzati, colti, evoluti, adulti, padroni, religiosi, portatori di cultura, verità, luce, bianchi. “Loro”, selvaggi, ignoranti, primitivi, bambini, servi, pagani, devoti alla natura, alla menzogna, alle tenebre, neri. Conrad recupera l’accostamento e lo ribalta. Il bianco non è solo bianco e il nero non è solo nero. Luce e buio si mescolano, si invertono. La sede della Compagnia appare inospitale, i bianchi che Marlow incontra lungo il suo tragitto sono figure negative, burocrati in carriera che si discostano da quei “migliori” portatori di cultura, “civiltà”. A poco a poco cade il velo dell’impresa coloniale, che sottintende schiavitù e sfruttamento, in contrasto con quanto veniva promulgato. Non più simbolo del progresso, ma crudeltà. I neri venivano considerati degli animali, rappresentanti del Male primitivo, della regressione. Marlow scopre invece che non sono dei selvaggi cannibali. Proprio come il suo autore, viaggia nella “Preistoria” per apprendere che la vera brutalità è nei suoi simili, contrari all’apertura, all’umanità, alla modernità. Va oltre gli stereotipi e il senso di minaccia e tratta i nativi con una carità inusuale per l’epoca. Allo stesso tempo, però, non è abbastanza progressista per diventare l’homo novus. Post-darwiniano, vede la componente bestiale dell’uomo e la osserva da lontano. “Quel che dava i brividi era il pensiero della loro umanità – pari alla nostra – il pensiero di una remota parentela”.

Il disegno ritrae Marlow, di spalle, con un burocrate che fuma un sigaro, mentre sullo sfondo, sedute a terra, si distinguono delle figure nere e magre.
sketch – Photo credit: http://laurenreeser.blogspot.com

Il racconto diventa rivoluzionario per la sua indeterminatezza. Bianco o nero? Grigio. Conrad svecchia i modelli della letteratura inglese (anticipando Virginia Woolf) e rinuncia al plot, alla coerenza della narrazione. Non si schiera in modo nitido, i misteri alla fine non vengono sciolti. “Tutto sembrava tenermi lontano dalla verità delle cose”. Nonostante la scrupolosità linguistica – sempre alla ricerca della parola giusta, come Flaubert -, infatti, restano dubbi e interrogativi. Il vaporetto è immerso nella nebbia, che è una nebbia della mente. Non c’è chiarezza, ma il buio della ragione diventa esperienza. È la nebbia stessa l’unico significato possibile, perché la verità è coglibile soltanto in frammenti. Il “set” ricorda un quadro impressionista, fatto di sensi (e i sensi non mentono). Marlow descrive odori, rumori, colori. Risale il fiume con la giungla intorno e vede solo il verde, il buio, sente i suoni africani dei tamburi, assimilati alla natura. Si resta fedeli alla lezione decadente: l’esperienza estetica è esperienza di conoscenza, laddove la parola non arriva. È la “Wilderness” stessa a comunicare, con la sua vitalità interna, ancestrale. Si erge orgogliosa contro il colonialismo, quello delle “tre c”: cristianesimo, civilizzazione, commercio (ipocrisia dell’uomo bianco). La narrazione suggerisce che l’esplorazione ha trasformato uno spazio vuoto in uno spazio di oscurità. L’ignoto in indicibile. Invece di portare la luce, la missione “civilizzatrice” ha svelato la “tenebra” degli invasori. Tra i sinonimi di tenebra: ignoranza, barbarie.

L'inquietante illustrazione di Matt Kish vede tanti occhi grandi stilizzati che sbucano fuori da linee verdi orizzontali, come fossero liane, ad indicare lo sguardo della Foresta e dei suoi "figli".
Matt Kish illustration – Photo credit: tinhouse

Ad ispirare il nome del protagonista, il grande drammaturgo inglese Christopher Marlowe, creatore del Faust (“La tragica storia del Dottor Faust”, 1590). Il “nostro” Marlow incontrerà il Faust di Heart of Darkness al termine del suo viaggio nell’Ade, in fin di vita, malato, domato dalla foresta pluviale: Kurtz. L’ultimo enigma irrisolto, la figura che aleggia per tutto il viaggio, perché tutti ne parlano e che tutti temono. Kurtz, l’uomo bianco che i bianchi invidiano – per le quantità ingenti di avorio che ha saputo procurare – e che i neri hanno finito per idolatrare. Il viaggio nel cuore africano diventa il viaggio verso Kurtz. Kurtz è la Wilderness. Regredito allo stato di natura, ha voltato le spalle alla morale vittoriana e ha vissuto con gli indigeni, venerato come una divinità per la sua forza catalizzatrice, per la sua voce. Risucchiato dalla Natura dei primordi, si è sacrificato alla pazzia. “The heart of darkness” non è altro che questo: la coscienza, la paura più profonda che allontana l’uomo dalle forme originarie del mondo e di se stesso. Kurtz le esplora e per farlo si inabissa, perdendosi.“La foresta guardava con quell’aria di sapienza segreta […] credo che gli avesse bisbigliato cose di lui che egli non sapeva, cose che non aveva neppure immaginato prima di consultare la grande solitudine”. 

Diventa l’allegoria dell’imperialismo e dei suoi genocidi, del fardello dell’uomo bianco così come lo intendeva Kipling, del Male dell’Occidente. Razziatore d’avorio che punisce i ribelli e soggioga coloni e indigeni, come Faust ha stretto un patto con il diavolo, con il mostro dell’anima. Marlow, specchiandosi in essa, può finalmente vedere se stesso: “sola in quella terra selvaggia s’era guardata dentro e, per Dio! vi dico che era impazzita. Dovevo affrontare il cimento di guardarle dentro a mia volta.” Kurtz non esiste. È il simbolo di questo viaggio a ritroso, di una quest che scava in profondità per far luce sulla coscienza. “Io lo guardavo come si osserva un uomo che giace in fondo a un precipizio dove non splende mai il sole.”

In questo sketch vediamo un visibilmente malandato Kurtz, con gli occhi neri infossati, quasi fosse un teschio, mentre sullo sfondo gli indigeni compiono un ballo tribale intorno al fuoco.
sketch – Photo credit: http://laurenreeser.blogspot.com

Marlow resta affascinato da quest’ombra che combatte contro se stessa, contro le regole imposte dalla società e contro un mondo nuovo che ancora desidera distruggere, perché non lo sa accogliere. Viene descritto come un affabulatore, un maestro dell’oratoria e non a caso. Conrad conosce l’enorme potere del linguaggio, sa che può distorcere la verità e che è portatore di menzogna. Quella stessa menzogna che osanna il Colonialismo senza condannarlo. Le ultime celebri parole di Kurtz prima di morire (magistralmente pronunciate da Marlon Brando in “Apocalypse Now”, ricordiamolo) riassumono il fallimento dell’uomo di fronte alla sua stessa creazione sociale: la morale. “The horror! The horror!”, l’orrore dell’ipocrisia a cui siamo condannati. La civiltà produce inganni per mascherare i propri orrori. L’unica vera animalità è la violenza, creata ad hoc per sopraelevarsi e per giustificare atteggiamenti che ci riportano, per la loro disumana ferocia, alla Preistoria più nera. Il grido di Kurtz è la vittoria etica di chi vuole sottrarsi alle tenebre del cuore.

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