L’ultima volta che un* interprete dichiaratamente omosessuale ricevette una nomination all’Oscar era il 2002: trattasi di Ian McKellen, candidato come Miglior attore non protagonista per il ruolo di Gandalf ne Il signore degli anelli – La compagnia dell’anello. Due decenni dopo l’Academy ci riprova con Kristen Stewart, che riceve la nomination come Miglior attrice per il ruolo della Principessa Diana nel film Spencer.
Viene da porsi una domanda: gli Oscar sono davvero così inclusivi come molti paventano? O forse lo spauracchio delle nomination influenzate dal temibile politicamente corretto è inesistente?
Se affianchiamo infatti la supposta inclusione di cui si parla spesso (come se fosse un’effettiva minaccia) a dei dati, è chiaro che in realtà il mondo del cinema non sia affatto promotore di parità civile e sociale. Già il Guardian aveva condotto un’inchiesta sul sessismo all’interno dell’Academy; così come noi di BRAVE avevamo parlato dei limiti rappresentativi sul grande schermo e della mancanza di nomi di donne nella rosa dei film proposti dall’Italia per ottenere la tanto agognata nomination per il Miglior film straniero.
Con la candidatura di Kristen Stewart siamo quindi davvero davanti a un’epocale e straordinaria dimostrazione di inclusione? Tristemente, direi di no. La strada per ottenere una piena parità è ancora lunga, e deve partire non tanto dal cinema quanto da una vera e propria rivoluzione sociale: è necessario insegnare che l’inclusione non sottrae un privilegio né lo divide, ma lo moltiplica affinché tutti ne possano godere.
Il cinema può essere un mezzo utile per la rivoluzione, ma bisogna essere consapevoli che questa non ha bisogno di grandi manifestazioni. Affinché sia efficace, il cambiamento deve partire dal basso, dal sistema interno, dalle piccole realtà, ed essere continuo. Una volta ogni vent’anni non basta più.
Chiara Cozzi
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Ph: Vulture