L’Italia è un paese di santi, poeti e navigatori. E pure di maschilismo tossico e becera ignoranza. Sono bastati meno di due minuti di video per portare in superficie stereotipi di genere cristallizzati nel tempo e ricordarci, semmai ce ne fosse bisogno, quanto la nostra cultura sia ancora profondamente e intimamente avversa alle donne. Tra le parole di un Beppe Grillo che, in questo frangente, veste i panni del capofamiglia tipo, autoritario e familista, affiorano misoginia e un’innata attitudine alla semplificazione.

Le parole di Grillo e la semplificazione dell’accaduto

La capacità di semplificazione non è di per sé qualcosa di deprecabile, basti pensare alla frequenza con cui questo termine viene usato e, nella maggior parte dei casi, senza sottintenderne un’accezione negativa. “Semplificazione burocratica”, “semplificazione normativa”, “semplificazione contabile” ed anche la più innocua “semplificazione di frazioni” sono tutte espressioni del quotidiano e nessuna di esse mette in allarme chi vi viene a contatto. Anzi, la semplificazione è una necessità umana attraverso cui scomporre in termini elementari qualcosa di complesso, che altrimenti richiederebbe un dispendio di energie e risorse eccessivo. Diventa una strategia pericolosa quando si tramuta in banalizzazione, cioè quando si tenta di offrire spiegazioni o soluzioni facili a un evento complesso e ignoto, appiattendone le sottigliezze e privandolo del suo spessore.

Ecco, quando Beppe, verde di rabbia, chiede quasi retoricamente ai suoi uditori perché suo figlio sia a piede libero se è davvero colpevole, li sta inducendo a una banalizzazione del diritto. Forse Grillo non sa, o finge di non sapere, che molti stupratori e molestatori varcano le soglie del carcere solo dopo la sentenza definitiva e l’equazione che prospetta, presunto colpevole uguale carcerato, è una mistificazione della realtà. D’altronde non possiamo stupirci troppo dell’ignoranza dell’ex comico in materia di diritto: è lo stesso che condannava senza appello chi riceveva un avviso di garanzia. Ma si sa “ogni scarrafone è bello a mamma sua” e quindi il garantismo inizia ad essere sensato solo quando le vicende giudiziarie riguardano i propri cari.

Ora, perseverando sulla strada del garantismo su cui siamo stati saggiamente e, con ogni probabilità, involontariamente illuminati da Beppe, suo figlio, Ciro Grillo, è innocente fino all’eventuale condanna di colpevolezza e tutto ciò che si dirà di seguito non intende in alcun modo dimostrare il contrario. Saranno le sedute dibattimentali e le sentenze a chiarire se sia uno stupratore oppure no. Di certo ciò che non si dovrebbe fare è colpevolizzare preliminarmente la presunta vittima.

Se l’innocenza di Ciro Grillo non può essere desunta dal fatto che non sia stato arrestato tanto meno la si può porre come implicazione logica ovvia del fatto che la ragazza abbia denunciato lui e i suoi amici di stupro otto giorni dopo il fatto. Prendere coscienza di aver subito un trauma di questo genere non è qualcosa di soggetto a deperimento: insomma, lo stupro non è un pezzo di formaggio che dopo qualche giorno ammuffisce in frigorifero. Elaborare la violenza, accettarla e denunciarla è qualcosa di molto più profondo, complesso e doloroso e questo processo può assumere in ogni singolo caso tempi differenti, non giudicabili da nessuno. Perché trovare un appiglio come questo per difendere uno dei presunti autori dello stupro non solo è meschino, ma è anche specchio di una mentalità in cui a dettare tempi e modi sono gli uomini, pur essendo donna la vittima.

E, tantomeno, è argomento rilevante il fatto che la ragazza sia andata a fare kitesurf e sia rimasta in quella casa per i restanti sette giorni. Ci sono donne che restano nelle mani dei loro aguzzini, continuando a condurre una vita apparentemente normale, per anni prima di riuscire a denunciarli semplicemente perché la sensazione di essere in completa balia del carnefice è talmente paralizzante che non si riesce ad essere sufficientemente lucidi. O molto semplicemente si ha paura. Paura delle conseguenze, paura del giudizio, paura di entrare in una caserma o di affrontare una corte in cui qualcuno si alzi e dica “ma lei come era vestita?”, “ma era sobria?”, “ma ha lasciato intendere che ci sarebbe stato un seguito?” o frasi simili. Paure ben giustificate stando ai fatti.

Ma forse ciò che è ancor più raccapricciante è il tentativo di buttarla in caciara, di far passare una (presunta) violenza per una goliardata di “quattro coglioni”, di “quattro ragazzi che si divertono”. Bisognerebbe chiedersi quanto si sia divertita la ragazza in quella situazione, ma lei ha denunciato otto giorni dopo e non può esserci altra spiegazione: i ragazzi hanno solo fatto la loro parte da maschi alfa e lei ne era ben felice. Poi chissà perché li ha denunciati: un’ingrata.

Di spiegazioni ce ne sono, invece. Ma colpevolizzare chi già porta il fardello del trauma è meno faticoso di comprendere ed esercitare una qualche forma di potere sul debole di turno provoca un sottilissimo, sadico piacere che si accompagna all’inconscia soddisfazione di vedere confermati gli stereotipi incamerati. Una violenza nella violenza.

Giulia Moretti