Ormai non sembrano esserci più dubbi: Saman, diciottenne piena di sogni e speranze, è morta.
Saman è morta, secondo le ricostruzioni, per mano di chi avrebbe dovuto proteggerla; morta per mano di chi l’avrebbe dovuta accompagnare nel percorso di trasformazione da larva a farfalla.
Le responsabilità
Tutto questo è vero e lo è altrettanto il fatto che la responsabilità per la sua morte è condivisa: siamo tutti complici. A stringere la corda o le mani intorno al collo della povera ragazza pakistana è stato, sempre secondo le ricostruzioni, suo zio, ma il silenzio attorno alla sua storia quanto ha contribuito a privarla dell’ossigeno? Per qualche giorno le pagine dei giornali hanno evitato di raccontarla e a tutt’oggi, nonostante il macabro scenario venuto fuori, fatichiamo a chiamarla col proprio nome: questa è una storia di femminicidio. Perché fossilizzarsi sulle parole? Omicidio o femminicidio la sostanza rimane la stessa. Eppure le parole costudiscono sotto la superficie delle lettere che le compongono l’essenza di ciò che pensiamo. Se non abbiamo chiamato l’uccisione di Saman “femminicidio” è perché evidentemente non lo riteniamo tale, come se questo concetto fosse di esclusivo appannaggio degli atroci delitti compiuti solo sulle donne occidentali. Siamo responsabili, noi occidentali, di aver esercitato su Saman quello che Ritanna Armeni ha chiamato “razzismo sottile“.
Saman: abbandonata dallo Stato
Chiarito che noi cittadini siamo tutti corresponsabili della morte di Saman, c’è un’assenza di coinvolgimento nella storia della ragazza che pesa più delle altre: quella dello Stato. Saman è stata abbandonata da noi, membri della società civile, ma prima di tutto dallo Stato. Lei, giovane donna che aveva scelto per sé di far parte della società occidentale, adottando i nostri costumi e sposando i nostri valori, è stata tradita da quegli stessi ideali in cui credeva. Se, rifuggendo facili slogan, ragioniamo su quale sia il fondamento della nostra società la risposta non può che essere una: gli Stati occidentali si fondano sulla supremazia della diritto rispetto alla legge familiare. Un fondamento che nasce dal sacrificio incarnato proprio da una donna, Antigone, che si immola nel disperato tentativo di affermare la ormai inattuale legge del ghenos. Di fronte a Saman lo stato non è stato capace di far prevalere la propria legge su quella di famiglia e la ragazza pakistana che dalle nostre leggi si sentiva protetta ha trovato beffardamente la morte. Qui non si tratta di questioni religiose, ma di incapacità politica: qualsiasi forma di estremismo religioso non può avere la meglio sulla legge dello Stato. Se non altro perché da quella legge proviene la sicurezza di tutti i cittadini e le cittadine. Chiunque si trovi in territorio statale dovrebbe essere tenuto a rispettare le leggi, quale che sia il suo credo religioso. E non si tratta di statalismo, di giustizialismo o di paternalismo esasperato ma di un principio non negoziabile che regola il vivere associato.
L’immigrazione presa sul serio
Sarebbe forse giunto il momento di iniziare a parlare seriamente di immigrazione, sgomberando il campo dai toni propagandistici o eccessivamente semplicistici. L’immigrazione è un fenomeno tanto complesso quanto inarrestabile su cui deve esserci un dibattito costruttivo perché, al di là di cosa ne dicano i sovranisti nostrani, la società del futuro, come ogni società del passato, è multietnica e composita; autoctona e straniera. Di converso anche l’accoglienza priva di programmi di inclusione e vigilanza non può considerarsi un approccio costruttivo e adeguato a un fenomeno così complesso e sfaccettato. Insomma, perché si possa costruire una società inclusiva e sicura non servono né i toni violenti e cinici né toni eccessivamente lassisti che finiscono per avvalorare le tesi sovraniste razziste. Lo Stato deve saper districare questa matassa, proteggendo ogni singolo cittadino per mezzo di politiche ragionate e non indignarsi una tantum di fronte a casi come quello di Saman, della cui morte è corresponsabile.
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Giulia Moretti