«Se si fosse trattato di 130 morti europei o americani la notizia sarebbe sui giornali di tutto il mondo, ma si tratta africani. Il mondo può ignorarli». Andrea Gagne, volontaria francese, commenta così l’ultima strage avvenuta nelle acque del Mediterraneo il 21 aprile scorso. Tutti coloro che partono sanno del rischio. Tuttavia è meglio il rischio di morire in balia del mare, che la certezza di vivere in balia dei carnefici. Con il passare dei giorni, le fotografie stanno mostrando i visi dei 130 dispersi.

Chiamarli dispersi, tuttavia, significa fare un torto alla loro memoria. Sono vittime prima di tutto. Vittime lasciate morire in mare o riportate nelle prigioni. Vittime che hanno atteso per due giorni che qualcuno li soccorresse. Vittime abbandonate senza soccorso. Vittime date in pasto ad un mare in burrasca dai trafficanti. Vittime condannate a morire affogate.

Desaparecidos

Si potrebbe definirle così, le 130 vittime. “Desaparecidos”, cioè “fatti sparire”, perché di loro non si sa più nulla. Una cosa è certa: ci sono famiglie che sanno che i propri figli sono partiti senza mai arrivare a destinazione. I parenti non ricevono, ça va sans dire, nemmeno il supporto delle autorità tripoline. Nonostante l’avviso di pericolo, infatti, le centrali di coordinamento libiche non si sono mosse. Il portavoce della Marina libica, il contrammiraglio Massoud Abdelsamad, ha sostenuto che la guardia costiera Tripoli abbia fatto tutto il possibile per i migranti. Nelle ultime settimane l’ufficiale ha comunque dovuto far fronte a molte rivelazioni. Nei giorni scorsi, infatti, “Rainews” aveva ottenuto nuove prove sull’uso di armi durante le intercettazione dei migranti. Abdelsamad, in quell’occasione, aveva dovuto ammettere che dalle motovedette «vengono esplosi colpi di arma da fuoco in aria per calmare i migranti durante le operazioni di soccorso».

I volti

I volti di chi credeva di avercela fatta ed era finalmente partito stanno iniziando a circolare in questi giorni. Le numerose immagini sono state infatti raccolte dall’attivista sudanese Mohamed Musa. Gli scatti mostrano tanti ragazzi in posa prima della partenza. Alcuni sono ripresi, fieri e spavaldi, in abiti eleganti durante le riprese dei trafficanti poco prima di lasciare i Paesi d’origine. Infatti i trafficanti, prima della partenza, avevano anche girato un video promozionale con le vittime del naufragio. Le immagini, girate in una bella casa, promuovevano i servizi delle bande di Khoms che ormai da anni trafficano in esseri umani.Tante le foto di questi giovani senza un luogo in cui le famiglie potranno piangerli. I ragazzi in foto potrebbero essere affogati come in un campo di prigionia.

Viaggi

Quelli, tra noi, che si sono lamentati di non poter viaggiare durante questo periodo di pandemia avranno di che riflettere. Il 21 aprile due grandi canotti hanno preso il mare nonostante le previsioni meteo, quei giorni, fossero delle peggiori. Dentro ai due gommoni erano stipate circa 250 persone. Dopo sole poche miglia un gruppo è rimasto bloccato, probabilmente per un’avaria al motore difettoso. A quel punto i guardacoste li hanno riportati a riva e rinchiusi in prigione in condizioni disumane. L’altro gommone è stato squassato tutta la notte dalle onde alte sei metri del Mar Mediterraneo ormai senza rotta né un motore che spinge, rincorso inutilmente nella bufera dai soccorsi.

I soccorsi

Le ricostruzioni purtroppo confermano che si sia perso troppo tempo per compiere un’operazione di salvataggio utile. Il 21 aprile un aereo “Frontex” aveva avvistato il gommone segnalato dai volontari del centralino civile. Secondo la ricostruzione un messaggio “Mayday” era stato lanciato alle navi nell’area perché il gommone era in condizioni di pericolo di imminente naufragio. Tale circostanza è stata anche confermata dalla Ocean Viking. Il messaggio radio era: «Mayday Mayday per una barca in distress» seguito delle coordinate. Per oltre 24 ore la Ocean Viking ha inseguito nella bufera il secondo gommone partito dalle coste libiche. Alessandro Porro, soccorritore a bordo di quella nave ammette: «Ero esausto, disidratato, a fatica sono tornato nel letto, ed ero protetto da una signora delle acque che pesa migliaia di tonnellate». Prosegue il presidente di SOS Mediterranee: «Fuori, da qualche parte in quelle stesse onde, c’era un gommone con 120 persone. O 100, o 130. Non lo sapremo mai, perché sono morte». Conclude Porro: «All’alba abbiamo cercato ancora, assieme a tre mercantili, senza coordinamento né aiuto degli Stati. Fosse cascato un aereo di linea ci sarebbero state le marine di mezza Europa, ma erano solo migranti per i quali è inutile correre, e infatti siamo rimasti soli».

di Serena Reda