La morte di Satnam nell’Italia dei caporali: se espropriare le aziende di chi sfrutta la manodopera non può essere un tabù

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Di Andrea Persili

Pietà l’è morta. Ha tirato dritto nonostante una donna implorasse di portare suo marito, gravemente ferito, in ospedale. Il figlio del padrone – così lo chiama la moglie di Satnam Singh eil, il bracciante mutilato al braccio da una macchina agricola, abbandonato in strada e deceduto al termine del calvario – ha messo prima di tutto l’azienda. Anziché prestare soccorso, ha posto l’arto tranciato del poveretto in una cassetta degli ortaggi, scaricato il lavoratore ferito davanti la sua dimora e premuto forte sull’acceleratore fuggendo via. Peggio delle omissioni del figlio, sono poi arrivate le scuse del padre, il titolare di un’azienda agricola in provincia di Latina, che ha pensato bene di colpevolizzare la vittima come da migliore tradizione tricolore. 

Cari patrioti, solo nell’Agro Pontino ci sono stati 15 morti sul lavoro tra il 2022 e il 2023 e quella donna indiana ha ragione da vendere nel dire un’ovvietà: l’Italia non è un Paese buono. Nell’anno domini 2024, mica nel Medioevo, volgari briganti chiamati “caporali” girano per le campagne e offrono il bastone al più potente: ogni maledetto giorno radunano disperati – sono circa 230 mila i lavoratori sfruttati nei campi del Belpaese – e li portano a schiattare di lavoro al sole per raccogliere pomodori, arance e altre delizie tricolori di cui ci vantiamo alle tavole del G7: nel menù ci sono turni che possono durare anche dodici ore, suicidi e doping.

Ai tempi di Giuseppe Di Vittorio, storico sindacalista della Cgil, i caporali bastonavano chi non si toglieva il cappello davanti ai latifondisti: oggi fanno da loschi intermediari per evitare grane legali ai padroncini nel caso i nuovi schiavi si infortunino, reclamino qualche spiccio in più o si mettano persino in testa di avere un contratto (non c’è più morale, Contessa). 

D’altronde c’è un filo di sterco che lega il contratto di lavoro al permesso di soggiorno: il ricatto. Vuoi essere regolarizzato? Ti pago per 10 giorni ma ne devi lavorare 30. Rimani incinta? O abortisci o vai a casa. Non sei carina con me? Te ne torni al tuo Paese. 

Forti con i deboli e deboli con i forti, questi vigliacchi si presentano ogni mattina all’alba presso baracche fatiscenti dove alloggiano in condizioni disumane centinaia di migranti. Li passano in rassegna, dando loro del tu senza essere parenti: “A te, dico a te, viene: tre euro l’ora. Tu oggi invece te ne rimani a casa così ti impari a parlare con quelli del sindacato”. Andate, sempre per rimanere nell’Agro pontino, negli insediamenti di Bella Farnia e Borgo Hermada: troverete case senza acqua né riscaldamento, con il tetto in Eternit. Non sono bastati due scioperi, prima nel 2016 poi nel 2019, dove circa quattromila indiani di etnia sikh hanno incrociato le braccia. Le prepotenze sui più deboli sono continuate, e non solo in provincia di Latina.

Malgrado nelle ipotesi di caporalato siano previste sanzioni a carico di intermediari e utilizzatori, lo sfruttamento nelle aziende agricole tocca punte del 40 per cento in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio. Si tratta di un’emergenza nazionale e il governo, con la stessa velocità del decreto Caivano, potrebbe approvare domattina in Consiglio dei ministri il reato di omicidio sul lavoro e consentire l’esproprio delle aziende di chi sfrutta la manodopera in nero. 

Questo Paese cattivo, dove ingiustizia sociale e impunità hanno celebrato da tempo nozze scellerate, ha pure qualcosa di buono: la Costituzione, e infatti rimane lettera morta proprio nella parte migliore. L’articolo tre, comma due, consente di rivoluzionare società ed economia per realizzare la piena eguaglianza: la proprietà privata e la libertà di impresa, Carta costituzionale alla mano, non sono diritti assoluti quando c’è di mezzo la dignità e la vita degli esseri umani.