Il femminicidio di Chiara Ugolini, 27 anni, è il numero 41 di una lista che sappiamo non si fermerà. Sì, questo articolo comincia proprio dando un nome alla causa della morte di Chiara, perché la sua non sia una “morte violenta qualsiasi”: è obbligatorio e doveroso, nei suoi confronti e quelli delle altre vittime, porre l’accento sulla natura del crimine che ha fermato la sua vita.
Perché il femminicidio non può essere trattato come un problema qualsiasi, nonostante la narrazione che se ne fa possa far pensare il contrario. Un femminicidio è un crimine d’odio, è una misoginia talmente aspra, incattivita e violenta che a oggi ha fatto quarantuno vittime.
Il femminicidio di Chiara Ugolini deve farci riflettere su un problema tutto italiano: fatti i fatti tuoi che campi cent’anni. Perché Chiara ha avuto la colpa di aver difeso un’altra donna, la sua vicina di casa, compagna di Emanuele Impellizzeri, il suo carnefice. Non uso volontariamente la parola “trasformato”, che tanto piace alle cronache, perché chi si macchia di un atto così vile non è il Dottor Jekyll che si sveglia un giorno nei panni di Mr. Hyde, ma qualcuno che da tempo ha dato segni della propria pericolosità. Ma che si è volontariamente deciso di ignorare.
Una storia sbagliata: la pericolosa narrazione del femminicidio
Emanuele Impellizzeri è stato definito da vari quotidiani nazionali come un amante delle moto, dei viaggi, delle feste con gli amici e, soprattutto, un padre di famiglia. C’è stato anche chi ha avuto il coraggio di definirlo un “fan del Duce”, come se il dittatore fascista Benito Mussolini fosse stato un cantante pop o un attore da ammirare e di cui potersi definire fan. Per Chiara, invece, poche righe: alta, bella e seminuda nel momento dell’omicidio.
A cosa servono queste informazioni nella narrazione di un delitto? A nulla. E chi fa il giornalista dovrebbe saperlo. In un caso di cronaca è fondamentale fornire informazioni sullo stesso, e non sugli hobby dell’assassino. Tanto meno è necessario sapere come era vestita la vittima: non ci interessa e non è importante ai fini della narrazione.
Nel giornalismo italiano c’è questa tendenza a voler raccontare un femminicidio come se fosse un romanzo, con i protagonisti costretti e ancorati a un sistema di leggi non scritte di stampo feudale e patriarcale. E ciò non solo è sbagliato, ma anche irrispettoso nei confronti di chi non può raccontare la sua parte della storia, quella vera. Perché se la vittima è donna si cercherà un deterrente nella sua morte, un alibi per l’assassino scandagliandone la vita: un passato difficile, un rapporto con un genitore burrascoso o un giro di amicizie sbagliate. L’assassino diventa la star delle cronache mentre la vittima sbiadisce sullo sfondo, e di lei si ricorda solo quanto era bella e che cosa indossava al momento dell’omicidio, lasciando uno spiacevole alone di voyeurismo feticista sulla sua morte.
Può quindi un giornalismo che porta avanti una narrazione romanzata del femminicidio definirsi tale? Perché non ammettere i propri limiti davanti a un problema culturale e dare la giusta definizione alle cose? Proviamoci insieme: Chiara Ugolini è stata uccisa perché donna. Perché il suo assassino ha percepito in lei la voglia di prevaricarlo, di annullare la sua virilità mostrando solidarietà a un’altra donna. Di farlo sentire meno uomo, e di colpirlo proprio nell’orgoglio macista. È assurdo, ma vero. E a me sembra tutto fuorché un romanzo che leggerei.
Chiara Cozzi
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