La seconda stagione di Euphoria è il viaggio di una generazione nelle ferite dell’adolescenza

Foto dell'autore

Di Arianna

La seconda stagione di Euphoria è un viaggio, non di quelli semplici. E’ un viaggio in uno dei luoghi più complicati e affascinanti della terra. E’ un viaggio difficile, perché con te, per la strada, non ci sono solo pericoli, ma c’è il bagaglio enorme che porti dietro con te. E questo costa ancora più fatica.

La seconda stagione di Euphoria ci dimostra come l’adolescenza sia uno schifo, ma che la redenzione è possibile

Non ho mai avuto problemi a guardare una serie tv tutta d’un fiato. Pratico il binge watching come lo schioccare delle dita, ma non è possibile farlo con Euphoria, è umanamente impossibile, diciamocelo.

L’ultima puntata disponibile su Sky per adesso è la quinta, piccolo (enorme) capolavoro di HBO, gioiellino del piccolo schermo, che tutti dovrebbero guardare. Sì, se potessi consigliare di fare qualcosa per voi stessi, direi come prima cosa: “Guarda la quinta puntata della seconda stagione di Euphoria, perché non guardarla significherebbe fare un torto a te stess*”. A prescindere dalla serie. Ma non farò spoiler.

Ma perché? Arrotoliamo il nastro, facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire il motivo per cui Euphoria dovrebbe essere vista da tutti e perché sia il prodotto più figo di questi ultimi anni. Euphoria è universale, parla di uno spaccato di generazione intera, e si rivolge finalmente alla nostra generazione per darle giustizia. La nostra generazione aveva bisogno di onestà, che qualcuno parlasse con la nostra voce. Aveva bisogno di coraggio. Quello di Sam Levinson, che permettesse di togliere quel filtro onirico, spensierato, candido e dolce dell’adolescenza. Le prime scoperte, i primi amori, i primi dissensi. L’adolescenza è il periodo più complicato della vita di un essere umano, e avercelo descritto da sempre come il più bello e dolce, ha solo portato a incrinare sempre di più l’immagine che abbiamo di noi stessi allo specchio, anno dopo anno, incertezza su incertezza. Adulti a metà. L’adolescenza è il momento più buio, devastante, difficile: il momento in cui si sperimenta da soli la paura di stare al mondo, il momento più fragile. Sta proprio qui la delicatezza: sperimentare senza concedersi di sbagliare ci porterà a diventare gli ennesimi adulti infelici.

Tutto il teen drama prolisso e diabetico degli anni 2000 è (finalmente) deceduto. Euphoria ha cambiato le carte in tavola. Certo, la sola menzione degli anni 2000 che merita è stata Skins, l’unico prodotto che ha cercato di rompere gli schemi di un’epoca che aveva bisogno di prendersi il diritto di parola.

Adolescenza, alias tossicità, fa da collante in tutta la serie tv, la tossicità è il fil rouge che accompagna gli eroi dei nostri tempi. Devastati, imperfetti, dipendenti, traumatizzati. La nostra è una generazione complessa, e pochi di noi sono sopravvissuti all’adolescenza. Zoppichiamo, e ci travestiamo da adulti, cercando di dimostrare al mondo ciò che vorremmo essere. Chi ci dice che l’adolescenza è il periodo più bello della propria vita sbaglia. Lo è la rinascita, il ricostruirsi, che di certo non appartiene agli anni della pubertà.

Euphoria è urban, è sporco, reale. E’ onesto. La fenomenologia della tossicità è pazzesca, lo spettatore guarda la realtà spiazzante che mai è narcisista, che diventa brutalità mai fine a sé stessa. La realtà è così, il disincanto non è un lusso che ci appartiene.

Euphoria è (soprattutto) un cast da perdere il fiato. Una Zendaya magistrale, che già nella prima stagione sublime, ma nella seconda è divina. Con Zendaya si perde completamente il contatto con la realtà, e non sai più se ciò che stai guardando è lì nella tua stanza, o dentro uno schermo. Euphoria è Hunter con la sua Jules, con Maddy e Nate con le relazioni tossiche, è Cassie e Kat con la follia, l’annullamento di sé per sé stessi.

Ma è anche stare dalla parte dei più deboli, di chi zoppica un po’. Che chi combatte, chi si scontra, chi si perde, in realtà muore solo dalla voglia di ritrovarsi, di rinascere, di credere ancora che, nonostante tutto, l’amore può salvarci dalla ferita del mondo. Basterebbe solo avere occhi e orecchie giuste per saper ascoltare.

Seguici su Metropolitan Magazine