Sono stati oltre 200 gli ambientalisti uccisi nel 2016. Quattro a settimana, quasi uno a giorni alterni. Questi i numeri del rapporto annuale di Global Witness, l’ONG che aggiorna annualmente questa tragica statistica.

Uccisi in nome di interessi economici, o in spaventose guerre tra poveri e poverissimi per la mera sopravvivenza. E’ il Brasile a vantare il triste primato degli omicidi degli ambientalisti, con oltre 49 uccisioni. A seguire altri paesi dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa, come Colombia, Filippine, Nicaragua, Congo, India, e molti altri.

Il rapporto di Global Witness scrive chiaramente che il fenomeno è in piena recrudescenza, ed è l’inviato speciale dell’ONU per i diritti umani e l’ambiente John Knox a spiegarne i motivi. Come riportato dall’agenzia Agi, «la cultura dell’impunità sta avendo il sopravvento, e questo crea le condizioni per cui la distruzione dell’ambiente a fini economici sta divenendo qualcosa di difficilmente arrestabile». Nel 2017 sono stati già 89 gli omicidi.

In Brasile, per esempio, tra i responsabili delle uccisioni si possono indicare senza timore di sbagliarsi gli interessi che ruotano intorno all’industria del legname, che nella foresta amazzonica trova alimento a scapito delle popolazioni indigene in primis, ed a seguire dell’intera popolazione mondiale (essendo, non a torto, indicata come il polmone verde della Terra). 

Ma è soprattutto l’industria mineraria, con il vorticoso giro di denaro ed interessi che le ruota intorno, ad essere la maggiore responsabile di uccisioni di ambientalisti. Possiamo citare Berta Cáceres, uccisa in Honduras perché difendeva i diritti delle popolazioni indigene Lenca, o i tanti, tantissimi che cercano di contrastare nell’Africa subsahariana la corsa alle risorse minerarie indispensabili per l’industria tecnologica, come il coltan, o le terre rare, o il cobalto, senza dimenticare i sempreverdi oro, uranio e diamanti. MIniere che sono bombe ecologiche, seminatrici di morte sia per chi vi lavora sia per l’ambiente e le popolazioni circostanti.

Il paradosso di tutta questa storia è che ad uccidere gli ambientalisti non sono solo le industrie contro cui questi lottano. Spesso, infatti, sono gli stessi lavoranti delle miniere o gli abitanti della zona, perché credono che gli ambientalisti vogliano strappargli quel briciolo di sopravvivenza dato dall’industria rapace e aggressiva piombata nei loro territori, a trasformarsi in assassini disposti a tutto.

 Inoltre, non bisogna dimenticare anche la piaga del bracconaggio che imperversa principalmente in Africa Centrale, in una spietata guerra tra i ranger dei parchi e le bande dei bracconieri che puntano all’avorio e alle pelli pregiate da vendere a caro prezzo ai mercati dei paesi ricchi o emergenti.

Ma se pensiamo che tutto ciò sia confinato ai paesi del cd. “Terzo Mondo”, ci si sbaglia di grosso. Anche nel ricco e civile occidente gli ambientalisti rischiano. Il caso esemplare è quello riguardante la costruzione dell’oleodotto di Standing Rock, Negli Stati Uniti, che avrebbe dovuto attraversare alcune riserve indiane. Orbene, il parlamento locale è stato vicinissimo ad introdurre una legge che avrebbe consentito a chiunque di aprire il fuoco sugli ambientalisti con la quasi totale garanzia dell’impunità (un qualcosa di molto simile alla legge nota come “Stand Your Ground”). La legge fu bocciata sul filo di lana, ma la possibilità che entrasse in vigore rende molto bene l’idea sul clima riguardo agli ambientalisti.7

Sembra qui riproporsi la situazione che  colpiva i difensori dei diritti civili negli anni ’60 e ’70. Uccisi e lasciati soli, portatori di idee giuste ma scomode, abbandonati alla furia omicida dei portatori di interessi forti.

Lorenzo Spizzirri