L’ansia da competizione negli studenti continua, l’inseguimento del risultato perfetto, la retorica della performance da record, quella delle quattro lauree in pochi mesi. Non è questa l’università che chiedono gli studenti. Non più. Ora, oltre al diritto allo studio, gli universitari pretendono il diritto a uno studio che contempli la possibilità di fallire, la necessità di rallentare, il bisogno di mostrare fragilità che spaventano.

La scuola e l’università, ad oggi, uccidono: uccidono per la paura di non essere abbastanza, uccidono per la paura del futuro, uccidono per la pressione sociale. I suicidi tra gli studenti universitari, e prima ancora la depressione prematura che tra i banchi di scuola attanaglia gli studenti è ormai una realtà.
A vent’anni non si dovrebbe credere di aver fallito. Non in modo così drastico da farla finita. Eppure succede. Un ventiduenne studente di Economia all’università di Palermo si è tolto la vita a una settimana dalla sessione d’esame, lo scorso 15 gennaio. In pochi ne avevano parlato. Almeno fino a quando la tragedia della studentessa di 19 anni, che la mattina del primo febbraio è stata trovata morta nel bagno dell’università Iulm che frequentava, a Milano, non ha riaperto il dibattito sul malessere degli studenti. Anche lei, prima di fermarla, aveva definito la sua vita «un fallimento». Qui l’articolo dell’Espresso.

Suicidi per ansia tra gli studenti: non si tratta di casi isolati

maturità

«Non si può morire di università. Contro un merito che ci uccide»

ha scritto l’Unione degli universitari di Palermo sullo striscione vicino al dipartimento di Economia. «Rompiamo il silenzio» hanno gridato quelli del collettivo Cambiare Rotta di Milano. Per ricordare «che quanto è successo non è un caso isolato». Nel 2022 sono stati almeno tre i suicidi tra gli universitari. A pesare nella loro scelta anche la percezione di inadeguatezza nelle tappe che scandiscono il percorso di studi. Altri due in un solo mese nel 2023. Sintomo che sempre più studenti si sentono schiacciati dal mito dell’eccellenza, dalle difficoltà d’accesso al mondo del lavoro, dal peso di trovare un ruolo in una società che gli lascia poco spazio.

Psicologo a scuola: una possibile soluzione?

Si torna a parlare della faccenda dello psicologo a scuola. A prendere le parti degli studenti è il docente e scrittore Enrico Galiano che in un suo sfogo sulla propria pagina Facebook ha sottolineato la sua amarezza sulla questione.

“Forse qualcuno lo dovrebbe dire, che abbiamo in classe ragazzi che stanno male. Forse sarebbe ora di metterlo nero su bianco, che ne abbiamo che si tagliano, che smettono di mangiare, che smettono di uscire dalle proprie stanze. Li guardi lì a due banchi di distanza, e ti sembrano lontani chilometri. Come dietro un vetro, non li riesci nemmeno a sfiorare. Forse qualcuno lo dovrebbe dire che noi, da soli, non possiamo farcela. Per quanto empatici sensibili motivati, per cose come queste servono specialisti che siano sempre lì”.

Enrico Galiano

Tra le ragioni per cui gli studenti soffrono c’è il peso dell’eccellenza: come se essere eccellenti, o eccezionali, fosse l’unico segnale possibile di successo. Questo tipo di educazione lascia fuori non solo ciò che non funziona ma anche tutto quello che è medio, normale. Generando la sensazione, in chi non raggiunge il massimo, di aver fallito. E, come conseguenza, l’incapacità di tollerare l’insuccesso. Che invece costituisce un valore nel processo di crescita personale, perché permette di ripensare, ripartire, ricostruire

“Forse è il caso di dirlo, che se vivi in un paese che reputa superflua la spesa dello psicologo in ogni scuola ma non quella di aerei da guerra e armi, allora vuol dire che a quel paese non importa molto dei propri e delle proprie giovani. Forse è il momento di scriverlo forte, che questi ragazzi non fanno finta, e non fanno le vittime, e i loro non sono i-problemi-che-abbiamo-avuto-tutti. Avere 15 anni oggi non è neanche lontanamente paragonabile ad avere avuto 15 anni nel 1993. Forse occorre far loro capire che noi ci siamo davvero, coi fatti, e non solo a parole. Forse è ora, perché forse è mai più”.

Enrico Galiano

Una riflessione sulla crescente ansia tra gli studenti: decostruiamo la meritocrazia

Iniziamo ad immaginare un futuro diverso, decostruendone i pilastri ideologici anche se sembra così difficile: “meritocrazia” è uno di questi. La Meritocrazia è la parola che racchiude l’idea che se lavoriamo sodo, avremo successo. È l’idea che, di conseguenza, ci restituisce un messaggio molto controverso: ovvero che nel bene e nel male, ci meritiamo ciò che otteniamo. Ma poi, confrontandoci con la realtà che ci circonda, è evidente che la meritocrazia non funziona come previsto: ci sono tantissimi fattori legati al successo e il merito non solo è semplicemente uno dei tanti ma, probabilmente, non è nemmeno il più influente.

È quindi diventata una narrazione non solo fallace ma, che se non ci impegniamo a riconoscere e decostruire, continuerà ad avere sulle generazioni nuove un effetto sempre più tossico, facendo del male a sempre più lavoratori e studenti che si affacciano alle soglie del mondo. Eppure, una domanda sorge spontanea: ne siamo ancora entusiasti, perché?

La meritocrazia è anche un rifugio per quella classe politica che non sembra proporci un’alternativa valida alla crisi generazionale, ponendo l’analisi del mondo del lavoro in un sistema chiuso, asettico, che non considera le differenze sociali.

La meritocrazia, nella sua forma attuale, fa male a tutti. È tossico, eppure ne siamo ancora attratti. Il sogno è ancora vivo nella mente che possiamo ottenere qualsiasi cosa con duro lavoro e talento. La realtà è molto più complicata. Conosciamo il problema, quindi ora possiamo iniziare a rifletterci e decostruirlo. Magari chissà, anche risolverlo.

Articolo di Maria Paola Pizzonia

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