A Roma, nel cortile dell’ex-mattatoio, quartiere popolare di Testaccio, si accendono Le Luci della Centrale Elettrica. Notte fresca di inizio autunno: un’occasione gratuita (offerta dal Festival dell’Unità patrocinato dal Partito Democratico) per chiudere gli occhi e lasciarsi viaggiare.
Basta esserci per sentire la differenza. Dieci anni trascorsi su e giù dal palco: niente è cambiato anche se tutto è diverso. Una decade di immagini evocate, litanie recitate, isole non (ancora) trovate e preghiere (forse) finalmente esaudite. Due lustri più avanti e più in là, oltre le targhe, i premi, i piazzamenti alti in classifica, i posti in piedi che moltiplicano, un poco di tv, le aperture ai live dei maestri, le colonne sonore e le graphic novel, oltre tutto questo resta una sola immagine davvero indimenticabile.
Il corso di un fiume in aperta campagna. Non importa dove, ma cosa.
E quel qualcosa non è acqua dolce ma parole, un flusso enorme, costante, indomabile di riflessioni e figure umane, anche loro in continuo movimento. Che vanno, fuggono, ritornano. Dalla ‘spiaggia deturpata’ degli esordi, in direzione ostinata e contraria, fluiscono verso la fonte, la montagna, la ‘Terra’ che ha generato ogni cosa, che è sempre un nuovo inizio e che da il titolo al suo nuovo album.
Vasco Brondi ha 33 anni e una barba folta, da sopravvissuto: in effetti ha migrato senza sosta, con loro, con noi, attraverso questi tempi irrisolti e irrequieti: ha respirato profondamente quello stesso ossigeno precario, quel senso di vulnerabilità, di sconfitta e catastrofe, con l’ardire di trasformare l’impossibile e cavalcare uragani o, più semplicemente, di innalzare la noia di un’esistenza di provincia a una qualche forma di poesia, decadente non come Baudelaire ma come quando fuori piove e qualcuno è lì, in piena notte, a osservare le luci di una centrale elettrica. Annota, corregge, riscrive. Quindi abbraccia la chitarra, canta e il suo è come lo scatto di una fotografia. Le sue Polaroid sono le nostre lettere mai spedite.
Dieci anni dopo sono ancora lì, ad applaudirlo, i vecchi compagni di viaggio, i testimoni oculari e le muse inconsapevoli, così come i ventenni arrivati nel frattempo, comunque in tempo per questo primo bilancio, per cantare insieme – e non sentirsi più moltitudini solitarie davanti a uno schermo – un attimo prima che il sipario cali e inizi la semina per un nuovo raccolto.
I ragazzi stanno bene lassù, sul palco (c’è Marco Ulcigrai alle chitarre; Matteo Bennici al basso e violoncello; Giusto Correnti alla batteria e Angelo Trabace alle tastiere e synth) e per un’ora e un quarto, con la complicità di quasi venti canzoni, celebrano l’ultima data della tournée, capolinea di 70/80 date in giro per l’Italia. Ascoltando la scaletta per intero si ha un’idea del percorso.
C’è spazio per un’unica ripresa dal disco d’esordio: “Piromani”, collocata a tre quarti di concerto, ci ricorda di quanto fosse esile e scarno lo scenario sonoro di quei tempi, una rabbia ancora da canalizzare, una stanza con vista sul nulla dalla quale uscire per riscoprire il panorama tutto intorno.
E così anche “Cara Catastrofe” e “Quando Tornerai dall’Estero”, pur applauditissime, sembrano un ricordo quasi sbiadito per il Nostro: fatale e necessario, ci mancherebbe, ma pur sempre una tappa intermedia verso altre e più importanti scoperte. Quelle compiute con gli ultimi due lavori in studio: “Costellazioni” del 2014 e “Terra”, uscito lo scorso marzo. E’ proprio qui che lo scenario cambia davvero.
E dal minuscolo microcosmo di provincie intercambiabili (tutte ugualmente afflitte eppure così uniche, popolate di acrobati sospesi a un passo falso dalla sconfitta) si allarga finalmente l’inquadratura, un campo ben più lungo, una tavolozza sonora assai più densa e ricca di colori caldi, sfumature e particolari.
C’è spazio per il folk, per una musica etnica ma di un’etnia immaginaria, collocata tra Africa, Balcani, Medio Oriente. Percussioni e ritmi tribali. Storie più ampie e più inclusive, rasserenanti come l’aurora che scorgiamo oltre le file dei palazzi, in un altrove mai così vicino.
La sua poetica risulta più a fuoco, più calibrata, al servizio di una scrittura che sa anche farsi ‘pop’ suo malgrado, flirtando con una forma canzone che non teme di far ballare e cantare in coro il pubblico.
Come accade in “Qui”, in “Ti Vendi Bene”, in “Chakra”. Vasco non è più seduto e timido come all’epoca, quasi nascosto dalla sua chitarra distorta, sublimato dal suo grido. Ora è presente, ha acquisito una perfetta presenza scenica, sorride, si muove e sa come modulare il canto e intrattenere il pubblico, pur utilizzando poche parole. Anche perché il resto sanno farlo perle di canzoni come “Le Ragazze stanno Bene” e “C’eravamo abbastanza amati” proposta in un arrangiamento più epico rispetto all’originale.
E in chiusura non può mancare “Nel Profondo Veneto”, catarticamente liberatoria con quei suoi versi di degregoriana memoria, “Non c’è niente da capire/c’è solo da esistere/da lasciar correre”.
E a giudicare dai volti in platea (ancora confusi ma felici, malgrado tutto) è proprio ciò che sta accadendo.
Ariel Bertoldo