Secondo la definizione, una parola per essere considerata neologismo deve essere totalmente estranea alla tradizione linguistica precedente e necessita di essere associata alla consuetudine, all’uso che ne fanno quotidianamente un gruppo ampio di persone.

Il meccanismo parte da un soggetto singolo, che esordisce presentando un termine mai sentito prima, spesso legato al contesto colloquiale, suscitando ilarità nel resto delle persone. Esso genera scalpore, al punto tale che, tramite processo di imitazione, si diffonde nei discorsi di tutti, espandendosi velocemente.

Con l’era dei social, dei nuovi media e della rete internet, è facile poter divulgare in breve tempo un neologismo. Nella vita di tutti i giorni sono entrati infatti parole come hashtag, like, post, derivati dalla sfera dei social, usati ormai anche nel parlato quotidiano e altri termini di origini gergali, come ciaone, usati ormai anche da giornalisti e conduttori di programmi televisivi.

I media quali la televisione, la radio e i social network, sono inevitabilmente diventati uno strumento essenziale per la diffusione dei cambiamenti della lingua italiana: è dalla tv che ormai i bambini imparano a parlare ed è lì che la vita reale si riflette, senza avere più degli schemi o confini invalicabili.

Si ricordi il caso della parola “petaloso”, termine inventato da un bambino, la cui attestazione fece il giro dei social, apparve su internet e venne promosso inevitabilmente come neologismo dall’Accademia della Crusca. Coscienti del cambiamento e della realtà mutevole che ci circonda, anche gli esperti hanno deciso di aprire le porte a questi fenomeni sociali: il dizionario Devoti-Oli, che festeggia 50 anni, la cui nuova edizione è stata presentata a Milano qualche giorno fa, opera concepita da Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, con l’ausilio di Luca Serianni e Maurizio Trifone, presenta ben 1.500 neologismi derivati soprattutto dai media.

Si vede così, per la prima volta, la comparsa in un dizionario di parole inventate direttamente dai conduttori televisivi, spiegati con una definizione che possa spiegare a tutti il loro vero significato. Si pensi, ad esempio, a “webete”, pronunciato da Enrico Mentana, durante una puntata del telegiornale di LA7, per indicare con umorismo chi scrive qualcosa di inevitabilmente stupido online.

Dal mondo dei giornali arriva anche “fake news”, l’equivalente dell’italiano “bufala”. Si pensi invece a “ciaone”, tipica espressione nata dal linguaggio giovanile, arrivato tra i social grazie a un tweet risalente all’aprile del 2016, lanciato dai politici in relazione al mancato quorum alla consultazione e divenuto inevitabilmente virale. Il termine ha accezione negativa e sarcastica, tutt’altro che un saluto.

Dai social giungono quindi “taggare”, e il famosissimo “hashtag”, definizione del quale risulta molto utile per chi non fa uso di social e lo sente spesso nominare. Dal mondo della storia arriva invece “Brexit”, unione di Britain ed exit, per indicare l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, oppure dalla società arriva anche “hikikomori”, termine che va ad indicare l’atteggiamento di una persona che si esclude ed isola da tutti. In attesa di approvazione, abbiamo altre parole promosse dalla vita di tutti i giorni, diffusesi tra i social, quali “friendzonare”, “docciarsi” o “intraleggere”.

Per attendere l’introduzione di essi nel vocabolario e nell’ufficialità dobbiamo attenderne la diffusione e la consuetudine all’uso da parte di un gruppo ampio di persone e magari dalla loro promozione attraverso i social, nuovo palcoscenico per termini che vogliono aggiudicarsi il titolo di neologismo.

Simona Abbate