Come liberarsi dall’ossessione di noi stessi, dal desiderio incontrollato della versione più perfomante di noi? A volte più riempiamo la nostra vita di cose più la sentiamo svuotata di senso. Il gioco maldestro dell’ossessione dell’iperproduttività che ci ha insegnato la nostra società prima, che ora il sistema quasi ci impone “per stare al passo”. Una condizione universale, in cui riconoscersi anche nel libro “La via del vento” di Dino Carella, edito Ensemble, pubblicato il mese scorso in Italia, dopo una versione in lingua inglese.
Il libro “La via del vento” affronta una condizione comune, soprattutto negli ultimi anni. Il paradosso di una pandemia che ha rallentato il mondo, mentre la società rispondeva con una richiesta alla velocità estenuante, al multitasking, all’ordine, alla performance. Un modello sempre più iperproduttivo, che traccia il profilo dell’uomo moderno 2.0, ossessionato dalla pianificazione, ma che si rende conto che tutto ciò che costruisce non è di ferro, ma un castello di sabbia. Quando ci rendiamo conto di non sapere e smettiamo di trovare soluzioni, ci liberiamo dai ruoli che noi stessi ci imponiamo, per rispondere un modello strutturato. E forse solo allora, incomincia la vita. “La via del vento” ci dimostra perché e soprattuto come.
Intervista a Dino Carella, su “La via del vento”
Un uomo si ritrova intrappolato nella sua vita presente e inizia a formulare un piano alternativo. Raccontaci lo scenario de “La via del vento”
Ostro è un manager che dopo aver lavorato senza sosta per una vita, dedicando tutto se stesso alla produttività, alla pianificazione e al controllo, si ritrova svuotato del senso più ampio dell’esistenza e così inizia ad escogitare un piano di uscita; mentre pianifica però, l’azienda lo batte sul tempo, licenziandolo. A questo punto, coglie l’occasione di fare il viaggio che aveva sempre sognato e cioè attraversare le Riserve Indiane d’America, terra di origine di sua madre, sperando di ritrovare la connessione con lo spirito dei suoi avi che da ragazzo gli aveva parlato.
Ostro è il personaggio principale della storia di “La via del vento”, da dove viene questo nome particolare e perchè lo hai scelto?
Ostro è il nome del vento che spira da sud, detto anche vento di Mezzogiorno, lo stesso che spinse verso la salvezza il natante su cui si erano imbarcati i suoi genitori in fuga dalla Libia dopo la presa del potere da parte di Gheddafi. In quel momento, il protagonista era ancora nella pancia della mamma, per cui i suoi genitori decisero di chiamarlo così in segno di gratitudine. La similitudine tra spirito e vento ha suggerito sia il titolo sia il nome del protagonista.
“La via del vento” sembra anche tracciare il profilo dell’uomo moderno: ossessionato dalla pianificazione e dal controllo, ma che perde il senso del vivere per stare dietro al “fare”: come credi che questa riflessione si inserisca nello scenario contemporaneo del post pandemia? Questo periodo ha incrementato questa tendenza?
La pandemia, con la sua brutalità, ha messo a nudo la fragilità ed insensatezza degli schemi a cui per troppo tempo ci siamo assuefatti considerandoli l’unico modo possibile per far funzionare le cose. Abbiamo visto che non è necessario passare ore nel traffico, inquinare, spendere centinaia di euro al mese di benzina, far crescere i nostri figli ai nonni o alle baby sitters, quando si può lavorare anche da casa. Abbiamo visto quali sono i lavori essenziali e quali no. Abbiamo visto tante cose che prima non vedevamo e non credo che le persone siano più disposte a perdersi nuovamente per tornare alla cosiddetta normalità, dove il fare è valore ultimo e fine a se stesso. Se il sistema economico non è al servizio dell’uomo, per migliorare la qualità della vita ad un numero sempre maggiore di persone in armonia con l’ambiente allora è malato. Il sistema, qualunque sistema, riflette il livello di consapevolezza delle persone che lo creano e lo adottano.
Secondo questa visione nel libro, la paura spinge alla partenza, alla riscoperta: è questo il modo migliore per affrontarla? E come la paura dell’ignoto ci rende migliori?
Più che la paura è la necessità di ritrovare quel senso di scopo che ci parla dal profondo. Qualcosa che senti vero dentro prima ancora di capire cos’è. L’uomo vuole sentirsi ispirato, in qualche modo è alla ricerca del divino che ha in sé e di cui vuole farne esperienza consapevole. Non è l’ignoto che ci fa paura ma l’idea che ci siamo fatti dell’ignoto. La paura, se non è legittimamente provocata da un reale pericolo e quindi un sacrosanto salvavita, è solo nel pensiero; quindi, capire la radice del pensiero, come funziona la nostra mente, è il modo migliore per affrontarla e sconfiggerla.
Nel libro parli di un concetto legato alle “radici materne”: di cosa si tratta?
La madre per me rappresenta la fonte, le radici, il nutrimento, l’accoglienza ed avere un rapporto sano con la sorgente fa sì che a prescindere dalle situazioni che la vita ti presenta, ti porti dentro quel senso di sicurezza che ti aiuta ad affrontare l’ignoto con fiducia. La madre non è solo una persona fisica, è anche la sorgente dove tutto nasce, muore e ritorna.
Alla luce di questa esperienza, non ci resta che “diventare vento”: cosa significa?
Vuole dire liberarsi dal peso dei ruoli e delle aspettative, dalle pretese di potere e di sapere e dare credito al proprio intuito anche quando sembra suggerire qualcosa che apparentemente può sembrare azzardato. Chi si apre all’ignoto ha più fiducia nella vita che paura della morte e dunque vuole esplorare, fare esperienza di sé pienamente, quindi, diventare vento significa non smettere mai di esplorare, liberarsi dagli schemi mentali autolimitanti, dalle presunte certezze, significa essere vivi, spontanei, presenti nel qui e ora e scoprire così il divino che è in ciascuno di noi.