“Hai giocato questo gioco?” “si l’ho giocato”.
In teoria questo scambio di battute dovrebbe essere scorretto.
Grammaticalmente un gioco non può essere giocato come un libro può essere letto o un film visto. Ma (dalla mia totale ignoranza) credo che queste siano rimasuglie di un tempo in cui i giochi erano unicamente attività e non opere con un inizio, uno sviluppo e una fine.
Il termine giocare è molto interessante e complesso perchè si porta in spalla una serie di ingiustizie e pregiudizi. È difficile prendere sul serio un’arte quando anche solo nella lingua parlata viene trattata come il fratellino scemo.
Questa rubrica, che si pone l’obiettivo di analizzare temi e tecniche di opere video-ludiche, preferisce fregarsene e passare dal serio al faceto, giocare con il concetto di gioco spogliandolo dall’aura di infantilismo che lo avvolge senza però rinunciare alla sua unicità dinamica. Prendersi sul serio e non sul serio. Giocare come in inglese, dove play vuol dire anche recitare, suonare o in genere essere attivi in qualcosa. Sono invitati gli appassionati così come i detrattori le cui perplessità combatteremo con un lapidario e altezzoso “eppur si gioca”.


La tetra avventura della giovane Six all’interno dell’inquietante luogo chiamato ‘Le Fauci’ fa uso intelligente di uno dei punti di forza più interessanti dei videogiochi. Vediamo insieme come l’ambiente creato dai Tarsier Studios diventa colmo di significato per la storia del gioco e per l’artigianalità del media.

C’è un dibattito, da qualche parte.
Questo dibattito, pare, riguardi cosa rende grande un videogioco.
Da un lato, si dice che la narrativa bastardizzi il gameplay e che un videogame occupato a raccontare una storia, non sarà mai una pura esperienza ludica come può esserlo un Tetris, dove tutto è puramente virato al meccanismo di gioco.
Dall’altro lato dello spettro, invece, troviamo un punto di vista che soffre nel vedere il media videoludico sprecato nel raccontare sempre (o non raccontare affatto), tramite le meccaniche proprie del media venutesi a sviluppare nel tempo, delle storie legate a conflitti diretti (spesso violenti) o (nella versione più “pacifica”) enigmi da risolvere. Il designer Chris Crawford (pazzo scatenato e creatore della GDC) è famoso per essersi battuto anni e anni su questo tema, quasi come fosse il leader militare del lato ‘narrativo’ del dibattito.

Famosissimo il suo discorso (declamato brandendo una spada, giusto per farvi capire il tipo) sulle possibilità inespresse della narrativa ludica/interattiva.
Crawford sostiene che i grandi linguaggi del racconto sono tali perchè parlano dell’esperienza umana, tra umani, e che i videogiochi non sono ancora riusciti a ricreare quello che le altre arti hanno già abbondantemente conquistato. O che, quantomeno, non ci siano riusciti senza prendere in prestito altri media, annientandone le potenzialità interattive (vedi uso/abuso di cutscene per raccontare momenti topici).
Crawford dice anche che, in tempi recenti, sono stati principalmente gli sviluppatori indipendenti a fare qualche passo avanti in questa direzione.

Il discorso è complicato e sfaccettato, ma è in effetti strano vedere come i generi che usiamo per definire un gioco non siano legati al racconto, ma alle meccaniche base; questo pur avendo, come cultura, una particolare attenzione alla narrativa infusa nei nostri giochi preferiti. È buffo, quindi, non parlare di gialli o thriller, ma di platform o sparatutto.
Chi scrive ha un parere non troppo sbilanciato. Trovo arte e meraviglia sia nei videogiochi ludocentrici, sia in quelli cosiddetti ‘story driven’, sia in qualunque sfumatura nel mezzo, se il prodotto è intrigante e ben realizzato. È però vero che, se dal lato puramente di ‘gioco’ siamo già partiti da livelli altissimi (difficile trovare un esperienza di trance ludica raffinata come il già citato Tetris) e abbiamo conquistato vette ancor più alte, sul lato narrativo abbiamo fatto passi avanti, ma siamo ancora lontani dall’aver trovato la quadratura del racconto nel media videogioco.

Un proiettile che mi ha sempre molto interessato, nella cartuccera narrativa dei videogames, è l’uso della narrativa d’ambiente. Raccontare una storia tramite l’esplorazione di un mondo, notare o non notare oggetti e risalire a situazioni per poter mettere insieme una storia. È sempre, alla fine dei conti, una veste elegante per dei puzzle. Ma, quando le cose sono ben fatte, tali puzzle sono talmente ammantati di racconto da non chiamare l’attenzione del giocatore al lato ‘meccanico’ e invece prenderlo per mano guidandolo all’interno di una storia.
Oggi voglio parlare di un gioco che, a mio parere, usa alla perfezione (o quasi) questo concetto, ibridando racconto e meccaniche ad enigmi in un modo talmente silenzioso, da essere quasi inquietante.
Come il mondo nel quale è ambientato.

Immagine dal web

 

In Little Nightmares, interpretiamo una bambina (Bambino? Demone? Non è chiaro. E questo è già fantastico) di nome Six, apparentemente rinchiusa in un ambiente ostile. Il nostro scopo non è chiaro, quindi non possiamo che navigare all’interno del suddetto ambiente, proseguendo stanza per stanza e cercando di andare avanti.

Sarebbe facile ricondurre l’immersività del titolo all’inquietante design dei nemici, agli effetti di luce, alla gestione dei colori, con la nostra protagonista di giallo vestita sempre a spiccare nel quasi totalizzante nero/blu delle tetre ambientazioni e a farsi luce con un accendino che proietta bellissime e profonde ombre.
Ma la cosa più interessante, e probabilmente più efficace, sono le tecniche che utilizzano tali scelte di design per muovere il racconto.

Il primo dei meccanismi di narrazione interattiva è visibile proprio dal criptico incipit e dal nostro esplorare per il puro gusto di capire almeno il contesto del racconto nel quale ci muoviamo.
Ma questo lo fanno moltissimi giochi, niente di particolarmente unico. Quello che però è interessante è che Little Nightmares agisce su un livello ancora più basilare.

Il fatto è che, ad esempio, non è che ci troviamo in una villa e non sappiamo che villa sia o come ci siamo finiti, bensì non abbiamo la benché minima idea di cosa sia il posto nel quale ci troviamo. Vogliamo capire il contesto, ma il gioco è molto avaro di informazioni e le poche che ci dona sono contraddittorie o criptiche. Questo effetto è raggiunto grazie ad una scelta piramidale di ‘non detto’. Alla base di questa piramide sta l’assenza di informazioni chiare sulla logica che unisce le stanze nelle quali, di volta in volta, ci troviamo. Possiamo passare da una segheria ad una cucina, ad un bagno, ad una camera da letto ad una mensa, il tutto passando per stretti cunicoli.

 

Immagine dal web

Procedendo nel racconto, questa moltitudine di stanze diverse prenderà senso man mano che capiremo cosa succede all’interno del mondo di gioco, ma questo non impedisce (soprattutto nelle prime battute) di farci sembrare tutto sconfinato ed incomprensibile. Non sappiamo chi siamo, in stanze apparentemente scorrelate l’una dall’altra, in un labirinto di porte che sembra non finire mai e quindi non ci metteremo molto per capire, quasi inconsciamente, che ci dobbiamo trovare in un posto enorme, dato il nostro continuo scoprire stanze nuove senza percepire una ‘fine’ dell’ambientazione. Se si trattasse di un luogo ‘naturale’ questa sensazione di spazio infinito potrebbe risultare affascinante e meravigliosa, ma essendo invece circondati da un contesto chiaramente artificiale e pieno di molteplici stanze per molteplici usi, la sensazione di imperscrutabile angoscia e morbosa curiosità risulta acuita.

Ogni tanto, l’ambiente comincia a darci sottili indizi non solo grazie all’ambientazione, ma anche tramite l’uso della fisica e della telecamera. In particolare, il sottoscritto ha cominciato a dedurre la natura del luogo tramite rumori e movimenti oscillatori dell’ambiente… piccoli elementi atmosferici che nutrono l’inconscio del giocatore e lo portano a rendersi conto lentamente di ciò che lo circonda senza (quasi) mai dargli una risposta definitiva (oltre a suggerirgli spesso e volentieri soluzioni ad enigmi d’ambiente, prendendo due piccioni con una fava).

 

Immagine dal web

Un altro step della piramide, che aumenta l’inquietudine e il senso di smarrimento generale del gioco, riguarda la gestione delle dimensioni. Come abbiamo già detto, il tutto ci appare enorme a livello di struttura generale della ‘mappa’, ma la sensazione è accentuata dal fatto che Six è radicalmente più piccola rispetto a qualsiasi elemento di arredo con il quale interagisce. In questo modo ogni stanza ci regala la sensazione di essere jack in cima alla pianta di fagioli e, inoltre, non fa che acuire la sensazione di enormità generale. Non solo ogni camera ci sembra fuori scala, ma anche per chi le abita, l’enorme agglomerato di stanze risulta un gigantesco labirinto.

Siamo in un mondo enorme anche per gente ‘normale’, e noi che lo esploriamo siamo ulteriormente piccoli.
Senza contare, poi, che spesso non c’è un’unica misura per la quale sono costruiti i vari ‘oggetti di scena’. Nella stessa stanza possiamo trovare cassettiere eccessivamente lunghe e letti troppo corti, ogni elemento resta troppo grande per noi, ma spesso e volentieri nessuno di essi funziona in maniera ‘intonata’ con le misure dei loro ipotetici abitanti, con i quali dovrebbe invece coesistere. Il mondo di gioco è talmente incoerente ed indeciso, che non può che farci inconsciamente pensare al fatto che chi lo vive, non siano persone normali. E, difatti, non lo sono.

 

Immagine dal web

Un altro elemento di qualità del titolo è il fatto di non levare quasi mai il controllo al giocatore, esponendo e ricontestualizzando elementi delle inquadrature grazie a movimenti di macchina mai invasivi, all’interno dei quali il giocatore può sempre agire liberamente.
L’ultimo e più importante elemento che rende Little Nightmares un’esperienza soddisfacente e intensa è (come abbiamo detto all’inizio) il modo nel quale maschera i suoi enigmi grazie al racconto.

È vero, spesso ci troveremo a cercare di capire come fuggire da una stanza, dovremo trovare un oggetto o attivare delle leve e agire in finestre di tempo limitate. Gli enigmi sono sempre disegnati ad incastro, ma non danno mai la sensazione di esserlo.
Questo perchè ogni elemento di Little Nightmares, nel momento in cui ci appare, è sempre presentato prima di tutto da un punto di vista narrativo.
Se entriamo in una stanza dove dobbiamo muovere una sedia per arrivare in una zona alta, la sedia da usare è quella con la quale si è impiccata la figura che abbiamo visto sospesa sopra di noi non appena entrati (con tanto di lettera, probabilmente di addio, poggiata per terra).

 

Immagine dal web

La risposta all’enigma ci viene mostrata prima della domanda e, soprattutto, viene principalmente contestualizzata come un elemento di racconto e solo in un secondo momento come uno strumento ludico. Quando dobbiamo scappare da una creatura inquietante all’interno di una cucina, ci sono molteplici tavoli sotto i quali nascondersi, un un paio di mensole dove arrampicarsi per poter scappare e anche quando c’è un unico punto dove dirigerci per farla franca, è di solito posizionato alla fine di sezioni al cardiopalma, dove il nostro cervello è troppo impegnato a ‘sopravvivere’ per riflettere su quanto quella zona sicura sia convenientemente (e artificialmente) posizionata lì dagli sviluppatori.

Quando una creatura cieca ci cerca con il suo udito sviluppato e capiamo dove ci conviene mettere i piedi per non farci scoprire, il momento non sembra mai creato ad hoc, perchè le zone sicure non sono mai ‘esplicitate’ da niente e l’ambiente ha una coerenza interna così forte da non farci sentire di aver risolto un enigma, ma di esserci ingegnati all’interno di una situazione pericolosa per vendere cara la pelle. Senza contare che spesso saremo costretti a fare cose poco gradevoli per sopravvivere, aumentando quel sentimento di malessere e portando avanti uno dei temi principali del racconto.

 

Little Nightmares_immagine dal web

Purtroppo, tutte queste peculiarità sono implementate in maniera molto più monca all’interno del DLC, dove saremo spesso in stanze anonime, a tirare leve per far muovere marchingegni che niente ci dicono sul mondo di gioco, oggetti che esplicano nella loro forma l’unico uso che possiamo farne, premendo tasti in un ordine specifico, risolvendo enigmi che non sono niente più che quello che sembrano. Rompicapo di qualità, ma che niente hanno a che vedere con le vette immersive toccate dalla trama principale.
Little Nightmares è una piccola gemma di racconto interattivo, con un design che predilige sempre l’esperienza prima della meccanica, per narrarci un mondo di soprusi, ingordigia, avarizia, orrore e tetra meraviglia con rara efficacia.

Forse Chris Crawford ha ragione quando dice che ai videogiochi manca l’interazione per parlare a pieno della natura umana, che serve ludicizzare il dialogo e i rapporti per arrivare a vette di espressività narrativa… ma anche gli spazi che dagli umani sono abitati (o da delle personificazioni mostruose di parti della loro psiche) possono raccontare storie.

Quando i videogiochi usano l’interattività per la narrativa e riescono a far sparire lo scheletro ludico sotto alla trama, senza rimuoverlo interamente però, possono regalarci racconti intensi, feroci e splendidi, con una forza che pochi altri media possono vantare.

 

 

Alessandro Romita

Illustrazione di Alessandro Romita

Blog dell’autore: https://asinodentro.wordpress.com/