Lo Strangolatore di Boston, la recensione: un film riuscito a metà

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Di Alessandro Libianchi

Il genere cinematografico del true crime è un filone che, negli ultimi vent’anni, ha cominciato ad avere sempre più risalto. Lo testimonia l’enorme successo della serie Netflix su Jeffrey Dahmer. O quello sfortunato capolavoro sempre targato Netflix che è stato Mindhunter. Lo Strangolatore di Boston, disponibile su Disney+ si inscrive nel genere, unendosi ad un plot completamente legato al Journalism genre in chiave contemporanea. Il Film è un successo per quanto riguarda l’omaggiare l’incredibile storia di Loretta e Jean. Ha meno successo, invece, nella creazione dell’intorno e della storia più ampia.

Lo Strangolatore di Boston: la condizione femminile come focus

Keira Knightley è Loretta McLaughlin, che, oltre ad essere madre e moglie, è una tenace giornalista che lavora alla sezione Lifestyle del Record American di Boston. Con la sua partner Jean Cole, interpretata da Carrie Coon, scopre una connessione tra tre omicidi di donne strangolate tutte allo stesso modo. Fin dalle prime battute del film, dovranno entrambe scontrarsi con una condizione femminile tutt’altro che rosea negli anni Sessanta. Loretta verrà ostacolata nel suo lavoro di report sia dai suoi superiori (tutti uomini), sia dalla polizia di Boston (anche qui tutti uomini). Gli verrà chiesto di mettersi in disparte, di tornare al suo lavoro nella sezione Lifestyle. Gli verrà anche detto che non ha esperienza per poter parlare di cronaca. Lei risponderà con un “come faccio esperienza se non mi dai la possibilità?”. La caparbietà delle due, però, avrà la meglio e diventeranno una parte fondamentale nella risoluzione del caso del Boston Strangler.

Fin da subito, come detto, il film punta ad unire, in una lettura contemporanea, un discorso sulla condizione delle donne nei primi anni Sessanta ad una storia di True Crime americano. E non è un caso che si sia scelto un fatto di cronaca nera come quello dello strangolatore di Boston per questo tipo di narrazione. Il killer è un uomo che uccide solamente donne. E ancora, non è un caso che per il secondo adattamento cinematografico della storia si sia scelto di porre come focus centrale della narrazione la figura di Loretta McLaughlin. Il primo arrangiamento è stato un ottimo thriller di Richard Fleischer, con protagonista Henry Fonda nel ruolo del detective Bottomly (qui interpretato da Alessandro Nivola) e Tony Curtis nel ruolo di Albert DeSalvo, il sospettato numero uno (qui David Dastmalchian). In quel caso, il focus narrativo era sul poliziotto che cerca di incastrare il sospettato numero uno, senza mai porre l’accento su cosa le vittime o le stesse donne di Boston potessero provare (erano ancora gli anni Sessanta). Nel film di Matt Ruskin, invece, lo sguardo è moderno e contemporaneo. Si pone il topos narrativo intorno ad una forte figura femminile, accentuando il fatto che anche la nostra protagonista possa essere tra le vittime del killer. Si affronta un discorso legato ad una società ancora fortemente maschile e maschilista attraverso la metafora giornalistica: la gerarchia del quotidiano impedisce a Loretta di lavorare liberamente a quello che vuole e crede. Anzi, usa lei e Jane come figure per poter vendere più giornali relegandole subito dopo alla sezione Lifestyle. Ci dice apertamente che non è una conquista avere il lasciapassare maschile per poter fare ciò che prima non si poteva.

Ora, questa narrazione di fondo all’interno del film è molto efficace nella misura in cui la inseriamo all’interno della vicenda personale di Loretta. Il suo spazio di vissuto è ottimamente rappresentato: la sua vita privata con un marito indispettito. il suo luogo di lavoro. La sua difficoltà nel farsi prendere sul serio dai poliziotti o dalle fonti. Tutto questo funziona benissimo all’interno della comfort zone “Loretta”. Ed in particolare nel primo e parte del secondo atto. Quando usciamo dal suo personaggio, questa narrativa viene meno. Non sentiamo la paura per le donne di Boston. Non vi è un accenno al fatto che il killer uccide solo donne. Se non in sporadici casi che si perdono, però, in un nulla di fatto. Anzi, il pericolo non è rappresentato praticamente mai neanche per Loretta stessa. Si, riceve quella chiamata o quella lettera a casa ma sono tutti momenti che non avranno un risvolto. Andrà avanti con il suo lavoro come ha sempre fatto e risolverà il caso. Andando a completare il discorso, possiamo dire come nel primo e secondo atto, nella sfera Loretta, la tematica femminile è efficace e abbastanza ben strutturata. Si perde poi completamente prima del terzo atto fino a fine film. forse anche a causa di una prova attoriale della Knightley non sempre perfetta. Nonostante sia sempre sopra la media, in questo caso risulta poco ispirata e leggermente troppo bidimensionale. Alzando invece lo sguardo ad un’analisi più storica e di ambiente narrativo, il discorso decade completamente. Sia per quanto riguarda la condizione femminile sia per quanto riguarda il pericolo e la paura delle donne stesse. Prendiamo Jean ad esempio: molto probabilmente il suo personaggio è stato tagliato di quasi la totalità dello sviluppo in sala montaggio. La sua vita privata non c’è mai ed è palese il taglio, anche se il suo approfondimento o, in generale, un po’ di tempo in più per esaminare certi personaggi non avrebbe guastato.

Un film di Fincher non di Fincher

Matt Surkin mette in scena una Boston degli anni Sessanta veramente efficace dal punto di vista della riproduzione storica. Aiutato dal limitato numero di ambienti, Surkin è riuscito a riprodurre fedelmente quello che è l’ecosistema di un’America che si affaccia sui Sixty. A livello registico Surkin dirige in modo pulito, senza sbavature di sorta. Risulta però fin troppo statico e patinato, rendendo quasi il tutto una rievocazione stile documentario o alla period-drama, che fa perdere di efficacia ai momenti di tensione presenti. Inoltre, complice la fotografia di Ben Kutchins, il film sembra essere un tentativo di riportare su schermo un classico thriller di Fincher. La palette di colori tendente sempre al verde Finchiano e i toni cupi sono tratti presi a piene mani dal regista. Sembra di rivedere Zodiac in un’altra salsa, in un nuovo arrangiamento senza il nervosismo e la tensione del film del cineasta statunitense. Mantiene però il classico box to box e le imprese giornalistiche del film di Fincher, nota positiva in sceneggiatura.

In conclusione, Lo Strangolatore di Boston è un prodotto riuscito a metà. Esattamente come la narrazione sulle condizioni femminili in quel periodo, topos narrativo del film, che sono efficaci per metà spettacolo. La pellicola risulta statica come il lavoro di macchina di Surkin e troppo pallida come la fotografia di Kutchins. La prova della Knightley risulta al di sotto della sua portata nonostante sia comunque ottima. Nota positiva il pacing della sceneggiatura e la maniacalità con cui lavorano box to box le due giornaliste. Insomma, Surkin è riuscito a rendere omaggio in modo molto efficace alle figure straordinarie di Loretta McLaughlin e di Jane Cole, ma in modo meno adeguato alla storia dello strangolatore e alla Boston degli anni Sessanta.

Alessandro Libianchi

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