Semplice, simbolica e rivoluzionaria: La Locomotiva di Francesco Guccini, nel 1972, è la canzone che caratterizza Radici, il primo vero capolavoro del cantautore emiliano.
“Il sentimento che sta sotto le canzoni è una sorta di consolazione, di pacata accettazione del presente nell’illusione che le cose vadano ormai bene. Il passato, l’appartenenza a una storia che ti fa comunque da background culturale, sembra la garanzia dell’oggi senza soluzione di continuità”
Maturo da un ’68 che ha scardinato le certezze di un’intera generazione, Radici ritorna a una tradizione popolare determinata, che fa di questo periodo artistico di Guccini uno tra i più sicuri e significativi.
In risposta ai grandi tumulti emotivi nati dalle spinte e dalle delusioni storiche della fine degli anni sessanta, Guccini racconta la storia da dentro, tra i vecchi e i bambini, tra gli amori e le paure, la storia di un coraggio silenzioso che diventa rivoluzione nelle storie semplici.
Ha rovistato tra gli scaffali della storia per scegliere quale fosse la più giusta da raccontare, da tramandare, e tra questi il libro Trent’anni d’officina gliene suggerisce una che poi diventa simbolo di forza e rivoluzione fino ai giorni nostri: la storia di Pietro Rigosi.
E La locomotiva è una canzone che diventa un inno, una spinta, un manifesto del desiderio di rivalsa. Il primo modo per credere in qualcosa è raccontarla: così Guccini, che non crede che “a canzoni si fan rivoluzioni” finisce per cantarne una.
E’ il 20 luglio 1893, un tardo pomeriggio nelle zone di Bologna, un fuochista anarchico corre a 50 km/h su una locomotiva, contro una vettura di prima classe e sei carri merci che erano in sosta su un binario; è un gesto folle, apparentemente senza senso, quello che Pietro Rigosi decide di compiere quel giorno di caldo e di silenzio.
I titoli dei giornali schizzano, in prima pagina la foto della locomotiva matricola 3541: un episodio che diventa presto una storia. Per miracolo, o destino, Pietro Rigosi fallisce il suo tentativo di morte e si salva con l’amputazione di una gamba e ferite varie.
Una macchina lanciata da Poggio a Bologna: un gesto inaspettato ma non irrazionale. Perché, in fondo, le vere rivoluzioni solo tali perché indipendenti, senza sottotitoli e annunci, figlie dell’istinto e della passione, e la passione non si spiega.
Una ribellione dichiarata e commentata non è più una rivolta, diventa politica, strategia, diventa già fallita.
Se guardiamo alle spalle di questo gesto, scopriamo le difficili condizioni lavorative che Rigosi subiva, l’insofferenza verso un ambiente che diventa un sistema a senso unico: dove dare non consegue mai ricevere.
La Locomotiva esce quasi un secolo dopo questa storia, eppure è sentita come se fosse accaduta persino oggi; simbolo di un desiderio di libertà e di ribellione che non conosce tempi e distinzioni.
Ed è per questo che, nella prima strofa Guccini riconosce l’eroismo di un uomo e di un’idea senza averlo mai conosciuto personalmente.
L’importanza della storia e del suo valore diventa il movente per una ribellione, di chi vedeva sottrarsi i propri diritti e le proprie libertà a discapito di un classismo esplicito, è la “guerra santa dei pezzenti“.
Quella che è una storia ottocentesca risulta una testimonianza moderna, adattabile ad ogni epoca: per quella misera natura della storia: ciclica e crudele, quando gli uomini rende tali.
E’ il simbolo di una trasformazione sociale e storica, ma anche di un’imminente corruzione di classi. Il treno diventa il motore e il simbolo di una lotta anarchica, di un urgente bisogno di uguaglianza e di libertà.
E’ una locomotiva che corre “verso la morte”, anche una morte simbolica, una rottura con la sottomissione di chi vuole giustizia.
Dentro un linguaggio popolare, della tipica ballata ottocentesca, Francesco Guccini riesce a dare un’impronta quasi epica all’evento di per sé tragico: il risultato di un carattere artistico proprio del cantastorie.
Quello di raccontare la tragedia in una chiave leggendaria ed epica, incastrata nella classica retorica gucciniana che fa di ogni ideale un simbolo quasi materiale (la fiaccola dell’anarchia / la bomba proletaria).
Ed è per questo che il linguaggio è un fiume di parole quotidiane, mai erudite: un racconto che rende semplice anche la complessità della follia rivoluzionaria di quegli anni.
Una canzone con un finale aperto, con una libera interpretazione:
“e che ci giunga un giorno ancora la notizia di una locomotiva, come una cosa viva lanciata a bomba contro l’ingiustizia”
chiusa con la speranza che questo avvenimento possa segnare un esempio di rivolta e di libertà contro ogni ingiustizia, oltre le definizioni generazionali.
Diventa, con questo finale, oltre che un inno liberatorio anche un inno alla resistenza.
Una sintesi di influenze e suggestioni inconsce, che danno alla canzone un tono culturale di impronta sociale. Questa canzone, che di fatto sembra essere solo un racconto storico, in realtà assomiglia al sogno della rivolta proletaria, dei poveri contro i ricchi, della verità contro l’illusione.
E’ una guerra contro i signori, i potenti, quelli che fanno la guerra dietro le cravatte e le scrivanie, cambiando i criteri di verità per i loro vili compiacimenti.
La ballata di Guccini non si circoscrive ad ideologie politiche che possano influenzare la lettura di tale canzone: nella narrazione dell’episodio storico sono stati gli uomini che la cantano ad aver letto la rivoluzione sociale, il desiderio di rinnovamento.
Una ribellione da uomo, non da partito: molto più esistenziale che politica. Diventa una lettura politica quando la politica si riconosce in quell’ ingiustizia sociale, nella corruzione silente che la canzone racconta: e allora l’unica rivoluzione, in questa triste storia, è solo cantare la verità. E per la verità battersi, correre, salire su una locomotiva.
Diventa la colonna sonora di un’epoca fragile, di generazioni future impaurite, e oggi di un millennio che corre ancora, proprio come quella locomotiva.
La locomotiva, che altro non è che la testa di un treno, come d’un corpo: il pensiero.
Rossella Papa