Ancora due giorni per assistere all’evento cinematografico dell’anno.

Unico e toccante. Questi i primi due aggettivi che vengono in mente dopo aver “sentito” Loving Vincent. Sì, perché questo film, il primo interamente dipinto, si sente in ogni singolo fotogramma.

Ogni meraviglioso dipinto, realizzato da una squadra di oltre cento artisti, arriva dritto al cuore dello spettatore che, indifeso, non può fare altro che abbandonarsi all’esplosione di colori che la pellicola ci regala.

È vero, a emozionare è sicuramente la storia personale di Vincent van Gogh. L’esistenza sfortunata, l’artista che iniziò a dipingere solo a 28 anni e che, in otto anni, produsse più di 800 quadri, vendendone solo uno in vita. Un personaggio misterioso, eclettico, imprevedibile e magnetico. La sua storia rapisce di per sé.

Non il solito biopic

Tuttavia, l’operazione geniale dei registi Dorota Kobiela e Hugh Welchman riesce a rendere omaggio al genio. Delicatamente e misteriosamente. A cominciare dal piano narrativo. Il film non è impostato come il classico biopic ma come un giallo.

Inizia tutto nel 1891, un anno dopo la morte dell’artista. Armand Roulin, il giovane figlio del postino, viene incaricato dal padre di consegnare l’ultima lettera di Vincent all’amato fratello Theo. Da qui si sviluppa un viaggio creativo negli ultimi giorni del pittore. Gli ambienti in cui ha vissuto, le persone che hanno fatto parte della sua vita, anche se per poco. Sfioriamo le sue solitudini.

Perché il suicidio?

Più entriamo nel vivo di Loving Vincent più abbiamo bisogno di sapere. Perché questo artista eccezionale è arrivato a uccidersi? Dopo il celebre episodio dell’orecchio (tagliatosi da solo e portato in dono a una prostituta), sembrava che van Gogh si fosse ripreso. Che avesse riacquistato la sua stabilità e la sua “calma profonda”. E se non si fosse realmente suicidato? Dopotutto, era preso di mira da tanti in paese, a Auvers-sur-Oise. Era solito frequentare giovani ubriaconi che gli facevano credito e donne di malaffare. Aveva creato scompiglio nella casa del dottor Gachet… Il dubbio rimane. Tante le versioni di chi lo conosceva, chi gli voleva bene e chi nei suoi occhi aveva visto rabbia e cattiveria.

Di certo, van Gogh combatteva ogni istante contro i suoi demoni e questo intreccio di arte, pittura, fotografia e cinema è il mezzo ideale per lasciarci intravedere un piccolo spiraglio della complessità di questo grandissimo artista.

Il suono delle immagini

Uno degli aspetti che più colpisce di Loving Vincent è la quasi totale assenza di colonna sonora, tranne sul finire della storia. Ci si chiede come mai sia stata fatta una scelta del genere, in barba al rischio di annoiare lo spettatore, specie quello che per la prima volta si confronta con la pittura. Eppure, ci si rende conto quasi subito che la musica c’è. Sono le immagini a suonare. Le innumerevoli sfumature dei paesaggi, dei fiori, del fiume, della notte e dei volti danno vita alle note di Loving Vincent, riempiendo la sala cinematografica di arte e passione.

Dopotutto, era quello che più desiderava van Gogh. Che fossero i suoi quadri a parlare per lui, a raccontarlo. Sebbene nelle sue lettere al fratello, si definisse “l’ultimo degli ultimi, un uomo mediocre”, riportando alla mente il meraviglioso tormento di Amleto, era un artista dalla straordinaria sensibilità. Capace di passare giornate intere a osservare il fiume e la notte. Specialmente la notte e le miriadi di stelle, alle quali sognava di arrivare. “Ma- scriveva al fratello- raggiungere le stelle da vecchio significherebbe raggiungerle a piedi”.

Valeria Longo