Sono una donna e oggi non voglio ricevere nessun mazzo di mimose. Questo potrebbe essere l’incipit di un articolo ormai standardizzato non soltanto sui luoghi comuni, ma anche sdoganare gli stessi ha già perso di autenticità. L’8 marzo non è la festa della donna, perchè si chiama così solo in Italia. Conoscere il contesto storico dietro la “Giornata internazionale della donna” – questo il suo vero nome – non è sufficiente per viverla in maniera consapevole. Abbiamo superato (quasi) la festa della donna nei pub con decorazioni rosa e camerieri particolarmente gentili ma allo stesso tempo non abbiamo ancora preso atto del potere significativo sociale e politico di questa giornata. Ancor meglio, del bisogno di aver dovuto costituire questa giornata.
Stucchevole e fuori contesto, la “festa della donna” riassume alla perfezione l’esercizio deludente e controproducente che la cultura pop degli ultimi decenni ha (strategicamente? banalmente?) ha attuato nel sistema sociale italiano. Quello che doveva essere – e rimanere – l’occasione di celebrare lotte rivoluzionarie novecentesche è diventato l’omaggio frivolo e stucchevole alla sfera femminile. La cultura italiana si è impadronita di questa ricorrenza, scimmiottando la “festa della donna” come occasione di svago insensato, se va bene; omaggio ostentato a bellezza e miracolo umano quando va male; se proprio vogliamo gridare al peggio: ci sono sempre i cartelloni Pro vita.
Festa della donna, ma festeggiare cosa?
Quando l’8 marzo 1972 a Roma, in piazza Campo de’ Fiori, Jane Fonda lesse il discorso davanti alla polizia, quella era la voce di una massa: il megafono era lo strumento per organizzarsi nelle dinamiche politiche, il tentativo di stravolgerle. Allora si chiedeva la legalizzazione dell’aborto e la liberalizzazione dell’omosessualità, oggi se scendiamo in piazza cosa chiediamo? L’elenco è bello lungo, ma tutto parte da lì: da un evento esplosivo, che tentava e incominciava a ribaltare le carte in tavola. E per questo non c’è da festeggiare, ma da avanzare. Se l’8 marzo si preferisce chiamarla Festa della donna è perchè il divario di potere è ancora nell’elenco bello lungo che abbiamo appena chiamato. Si festeggia il femminismo, ma non si richiama il femminismo; si predilige la narrazione romanzata e non si caratterizza quella necessaria.
O santa o puttana, viva la mamma, meno fiori più carezze: no principesse no guerriere, in quanto madri, in quanto moglie, un miracolo della vita. Il limite non è di una cultura pop che racconta questo immaginaria, ma anche di la alimenta: peggio, di chi ci monetizza. Un bell’esercizio di emancipazione è l’8 marzo per le aziende italiane, ad esempio, che oggi piuttosto che cercare di stringere la disparità con un assetto aziendale, retributivo e amministrativo adeguato, comunque preferiranno a mandarci newsletter rosa per gli auguri della festa della donna. Ma dura pochissimo, il tempo di aprire la mail o usare lo sconto, il tempo che appassiscano le rose: e svanisce l’incanto (se vi piace anche parlare di fiabe). Diventa in fretta già noiosa anche questa critica stessa, ma preferisco annoiarvi che continuare ad alimentare il fraintendimento della cultura in cui viviamo e che subiamo, uomini compresi. Tanti auguri, qualcuno direbbe.
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