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In morte di Maradona: una profezia e una promessa (per tutti)

Muore Maradona e riesplode il conflitto intorno a ciò che ha rappresentato, un conflitto mai sopito, che covava sotto la cenere. E’ morto il dio del calcio, il più grande di sempre, eppure è morto anche un uomo, con tutti i suoi vizi. Il ragionamento su Diego Armando Maradona è sempre stato, in realtà, un ragionamento su un’antinomia apparentemente incomprensibile. Dunque da non affrontare, bensì da risolvere schierandosi per l’uno o per l’altro, per il Maradona calciatore, con la M maiuscola, o per Maradona uomo con la emme minuscola. Due mondi da distinguere perché il tenerli insieme ha sempre rappresentato una domanda difficile. Un paradosso: la grandezza nella piccolezza, la divinità nell’indegnità

Maradona: i due volti del mito

È il fatto che ci sia del vero in entrambe le posizioni, e in maniera così evidente, che ha sempre complicato la faccenda. Una faccenda mai risolta, che oggi riesplode, si riaccende. Per la prima volta da mesi una notizia anticipa l’aggiornamento sul procedere della pandemia: la morte di Maradona. Tre giorni di lutto nazionale in Argentina, camera ardente nella Casa Rosada, lutto cittadino a Napoli. Intitolare in fretta uno stadio a Maradona e non più a un santo (e che santo), persone affrante come per la perdita del loro padre, così diverse (anagraficamente, socialmente) eppure accomunate intorno a lui, coinvolte, “chiamate” a ricordarlo, a parlarne. È morto Maradona, quello con la emme maiuscola.

Eppure è morto anche quello con la emme minuscola, e a tanti pare incomprensibile, ingiusto e finanche immorale riservare una tale attenzione alla morte di un solo uomo (neanche fosse un santo), in un momento in cui di uomini ne stanno morendo così tanti. Un’attenzione sproporzionata e ingiustificata ad ambiti tutto sommato secondari della vita.

Multiforme, ma un uomo solo

Eppure è morto un uomo solo. Ma comunque, o ci si schiera o si evita di parlare di uno dei due aspetti. E la domanda resta appesa, taciuta: non cosa separa il dio dal peccatore, ma cosa li unisce.

Per questo non bisognerebbe schierarsi. Perché sarebbe bello – accanto ai ricordi, agli aneddoti, alle letture specifiche (il calciatore, il simbolo, il rivoluzionario, il debole, il forte ecc.) – ragionare più distesamente, con uno sguardo più ampio, sull’eccezionalità di Maradona come fatto storico, affrontare quella benedetta domanda.

Kusturica l’aveva intuito, qualche anno fa, quando in un passaggio del suo docufilm su Maradona si interrogava sulla profondità con cui quell’uomo multiforme – quel campione, quel piccoletto, quel fenomeno, quel pessimo padre, quel mito, quell’uomo con problemi di droga, quel simbolo di riscatto, di appartenenza – agisse sulla psicologia umana. Già, un motivo dovrà pure esserci, e non può prescindere dall’unità delle sue manifestazioni. Proprio lì, in quel nucleo, deve trovarsi l’origine del senso religioso che Maradona ha acceso e accende in milioni di persone (non riducibile né assimilabile al solo uso di certe espressioni per parlare di lui né tanto meno a manifestazioni folkoristiche e idolatriche).

La promessa di Maradona

Così come non può prescindere da quel benedetto e maledetto pallone. No, idolatrare Maradona è superficiale quanto ritenere che parlare di un calciatore significhi parlare di aspetti secondari della vita. Perché Maradona non era un grande calciatore, era il calcio stesso. E nel gioco del calcio, come altrove d’altronde, è nascosta una promessa: quella di una vita libera, cioè strutturata per la libertà.

Tornando allora al pensiero di molti, è stato Falcao a sintetizzarlo dicendo che Maradona con il pallone era un dio e senza era un uomo. Ecco, appunto, un dio e un uomo: una profezia. La domanda che Maradona (tutto Maradona, come fatto storico) ci lascia in eredità è cosa prometta la sua profezia.

Andrea Carnevale

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