Medea di Euripide attraverso la drammaturgia contemporanea di Eugenio Sideri e la sua esperienza con gli studenti di Ferrara
Trilogia della vita
Medea, Antigone ed Elettra. Tre figure femminili che raccolgono l’essenza del tragico legato all’elemento del sangue: sangue che scorre, che pulsa, che insegue la vita. E’ su di loro che, a partire dal 2014, parte l’ indagine sulla tragedia greca del regista ravennate Eugenio Sideri. I suoi compagni di viaggio sono gli studenti del Liceo sociale Giosuè Carducci di Ferrara e una professoressa “illuminata”: Tiziana Grillanda. Insieme nel progetto di pedagogia teatrale Trilogia della vita, voluto e finanziato dall’Unione europea che ha coperto il quinquennio dal 2014 al 2019.
“Su Antigone – racconta Sideri – abbiamo lavorato nel 2014-2015, così come su Medea nel 2016-2017. Il 2018-2019 è stato invece dedicato ad Elettra. E’ un’esperienza in cui la percezione del tempo si dilata, si sovrappone e si confonde. O meglio, in cui l’antico si fa presente che si fa futuro”.
Il mito di Medea nelle opere di Müller e Wolf
La tragedia greca, nelle opere di Sideri, viene filtrata attraverso le opere di Heiner Müller e, per Medea, anche di Christa Wolf. Vissuti entrambi nella Ddr ai tempi del crollo del muro di Berlino nel 1989, gli autori ripensano il mito di Medea alla luce degli stravolgimenti politici di ogni tempo. Dove il cambiamento porta con sé la violenza a volte talmente traumatica ed efferata da essere umanamente inaccettabile e al punto che spesso serve un capro espiatorio.
Medea potrebbe esserlo stato, stando alle versioni pre-Euripide, accusata ingiustamente dell’infanticidio commesso in realtà dagli avversari politici. A prescindere da questo, però, il suo personaggio è e rimane drammaticamente attuale.
La tragedia come strumento di riflessione sulla vita e la morte
“Lo studio delle scritture dei tragici obbliga a riflettere sulla vita e sulla morte – spiega il regista – . Non è troppo presto, anche se sono solo adolescenti”.
Il dipinto di Goya e la fucilazione dei pavidi
“Decido di partire da un dipinto di Francisco Goya per lavorare su Medea, 3 maggio 1808 – spiega ancora – . Ci sono un gruppo di condannati, in attesa della fucilazione. Uno di loro ha la camicia bianca. È il cuore pulsante della visione. Ribalto la situazione. I condannati di Goya diventato il coro dei Giasoni. Vincitori, in apparenza, dello scontro, ma in realtà ridotti al muro da Medea che, guidata da parole che paiono sferzate, li conduce al patibolo”.
Medea, simbolo del matriarcato della Colchide
Medea diventa il simbolo delle donne della Colchide dal viso aperto, luminoso, forte e feroce che si staglia contro l’ipocrisia e l’opportunismo di Giasone. Rappresenta la città che sta per soccombere, come già avvenuto a Corinto, dove le donne stanno tutte a testa bassa. “Qui infatti è già arrivata la civiltà maschilista, che ha spodestato e annichilito il femmineo e il matriarcato, riducendolo a incivile e primitivo”.
Medea e la violenza del femmineo
Ecco allora sul palco Medea la barbara, a testa alta. Ogni ragazza del coro tiene una torcia elettrica puntata sul viso, senza illuminazione esterna. Poi Sideri aggiunge: “A quel punto diventa ancora più chiaro il dipinto di Goya: l’uomo in camicia bianca, al centro, unico punto luminoso del quadro, quasi a bestia ferita illuminata dai fari nella notte, diventa Giasone, dinanzi a Medea che gli punta addosso la torcia elettrica. Uno scontro di volti. Una sconfitta maschile. Le torce delle 21 Medee scagliano la luce azzurrastra addosso ai 10 Giasoni, impietriti, terrorizzati”.
L’adolescenza più vicina al femmineo primitivo che al maschile civilizzato?
“Anche se la fabula e l’intreccio di Euripide vanno altrove, nemmeno noi ci discosteremo troppo. Anche per noi resta una figura di madre e assassina. Ancora una volta l’indagine nel tragico e nella tragedia ci porta terribilmente a confrontarci con la contemporaneità. I ragazzi sembrano riuscire ad intuire il senso profondo della tragedia”.
Prosegue poi precisando che “è un livello intuitivo, epidermico inizialmente, che poi si scatena nei loro corpi, e li muove. E’ come se, quasi animalescamente, il tema tragico colpisse loro ancor prima che noi adulti, muniti di strumenti intellettuali”.
Il teatro come laboratorio di vita
Un coinvolgimento che stupisce, continua, soprattutto “nell’osservare come la durezza del tema, delle parole, delle invenzioni sceniche utilizzate, li sproni e coinvolga molto di più rispetto a testi e temi più semplici. E’ come se la sfida che raccolgono gli permetta di manifestare realmente le loro potenzialità e dia loro la possibilità di gridare al mondo le loro urgenze. C’è un valore civico del progetto che stiamo realizzando: non si tratta ‘solamente’ di realizzare spettacoli, ma di una vera e propria esperienza di vita”.
“Faccio teatro perché è questa la bellezza che offro alla distruzione del mondo. Faccio teatro perché devo farlo”. Julian Beck
a cura di Anna Cavallo
Di seguito il filmato sul progetto Trilogia della vita presentato nel giugno scorso nella Pinacoteca comunale di Ferrara.
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