Meloni prometteva di “deportare” i migranti in Albania: un progetto non solo controverso, ma anche un inutile (e illegale) disastro.
L’accordo tra Italia e Albania per trattenere migranti in strutture albanesi è entrato in crisi a pochi mesi dalla sua implementazione. La sezione specializzata del tribunale di Roma ha sospeso la convalida del trattenimento di sette migranti al Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Gjadër, aprendo un contenzioso con la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La decisione ha suscitato un acceso dibattito politico e giuridico, con accuse di strumentalizzazione politica da parte del governo italiano verso la magistratura.
La questione nasce dal trasferimento di sette migranti egiziani e bengalesi a Gjadër, in Albania, come previsto dall’accordo tra Giorgia Meloni ed Edi Rama. Tuttavia, il tribunale di Roma ha ritenuto che i trattenimenti non potessero essere convalidati automaticamente e ha rimandato la questione alla Corte di Giustizia dell’UE, contestando la compatibilità dell’accordo con il diritto comunitario. Senza la convalida entro 48 ore, i migranti devono essere rilasciati e ricondotti in Italia, dove avevano fatto richiesta di asilo
Incompatibile con l’UE, costoso e inconcludente: il modello Meloni per i deportare migranti in Albania è un disastro (nonchè un fallimento)
I tribunali italiani di Roma, Palermo e Bologna hanno già sollevato dubbi su una misura cardine del piano migratorio di Meloni: l’elenco dei cosiddetti “Paesi sicuri,” che includeva Bangladesh ed Egitto, Paesi d’origine dei migranti coinvolti. Secondo la normativa UE, per essere dichiarato sicuro, un Paese deve garantire sicurezza e diritti fondamentali a tutte le categorie di cittadini. Tale condizione non si applica a Egitto e Bangladesh, motivo per cui il tribunale di Roma ha ritenuto necessario un rinvio alla Corte di Giustizia UE per stabilire l’interpretazione definitiva.
Il governo italiano ha scelto di affidarsi alla nave Libra per trasferire i migranti, un’operazione che costa oltre 200.000 euro per ogni viaggio. La spesa complessiva per la gestione del modello Albania si avvicina a un miliardo di euro, cifra che alimenta ulteriori polemiche tra opposizione e governo. Mentre il governo accusa i giudici di ostacolare la propria linea di intervento, esponenti politici come Laura Boldrini criticano aspramente i costi e le inefficienze del sistema.
Attaccare la magistratura è la strategia della destra, ma i giudici stanno solo applicando una sentenza europea
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il vicepremier Matteo Salvini hanno attaccato duramente la magistratura, accusandola di boicottare le misure di sicurezza nazionali e di adottare sentenze “politiche.” Il segretario generale dell’Associazione Nazionale Magistrati, Salvatore Casciaro, ha ribadito che i giudici sono tenuti ad applicare il diritto europeo, evidenziando che la “primazia del diritto dell’Unione europea” è alla base del sistema giudiziario dei Paesi membri.
Il tribunale di Roma ha optato per un rinvio pregiudiziale, strumento utilizzato quando la normativa nazionale è considerata potenzialmente in conflitto con quella europea. Sebbene il governo abbia introdotto una norma primaria per rafforzare il decreto sui Paesi sicuri, questa legge non dovrebbe prevalere sul diritto dell’UE. La sentenza della Corte di Giustizia potrebbe arrivare entro pochi mesi, se si seguirà una procedura d’urgenza, oppure richiedere fino a due anni, lasciando così la questione in sospeso.
La tensione tra autonomia giuridica e politica migratoria
Sul piano giuridico, i giudici non hanno disapplicato il decreto, bensì rispettato la Costituzione, che tutela la libertà personale come diritto inviolabile, limitabile solo in circostanze eccezionali. La magistratura ha precisato che una persona migrante può essere trasferita in Albania solo se proviene da un Paese sicuro, e anche allora con limitate garanzie. La verifica sulla sicurezza del Paese d’origine deve essere sempre condotta in modo puntuale e nel rispetto del diritto europeo, che prevale in caso di conflitti con la legislazione nazionale.
La decisione della Corte UE potrebbe rappresentare un punto di svolta nelle politiche migratorie italiane, soprattutto nella gestione dei migranti irregolari. Il governo italiano, fronteggiato dalle rigide linee giuridiche dell’Unione, deve confrontarsi con l’efficacia del “modello Albania” e con i suoi costi economici e politici. L’acceso dibattito tra esecutivo e magistratura mostra come il tema migratorio sia anche un terreno di conflitto istituzionale e di tensione su cui pesa il delicato equilibrio tra sovranità nazionale e rispetto delle norme UE.
Il modello di Meloni sui migranti in Albania è un disastro ed è l’ennesima gaffe
Il fallimento del “modello Albania” rivela più di un semplice errore di pianificazione: è l’esito prevedibile di un governo che insiste su misure spettacolari anziché efficaci. Questa strategia di deportazione mascherata, con il suo colossale dispendio di risorse e le sue ripercussioni legali, è un simbolo della pericolosa tendenza a privilegiare l’apparenza alla sostanza, alimentando tensioni politiche anziché risolvere problemi concreti. Da Meloni a Salvini, si assiste a una campagna ossessiva contro la magistratura, quasi fosse l’unico ostacolo a un sistema di rimpatrio fallimentare, anziché un freno necessario alle derive autoritarie.
La scelta di ignorare i criteri di sicurezza UE e di abbracciare un approccio punitivo verso chi fugge da contesti disperati sembra radicata più in calcoli elettorali che in valori umani o legali. Inseguendo slogan e proclami, il governo rischia di restare ostaggio delle sue stesse promesse, incapace di affrontare una gestione migratoria che ha sempre usato come strumento di propaganda.
Maria Paola Pizzonia, Autore presso Metropolitan Magazine