C’è un filo rosso -nessuna immagine potrebbe essere più appropriata- che percorre l’intera storia delle mestruazioni: quello del tabù. Dallo scenario post apocalittico descritto da Plinio nella “Naturalis Historia” al passaggio di una donna con “le sue cose” fino alla pubblicità della Nuvenia. Certo molto cambiato il nostro approccio al ciclo mestruale. Non più una maledizione dequalificante, ma un appuntamento periodico e non richiesto. Per arrivare alle angoscianti perifrasi come quella del “Barone Rosso”, alla vergognosa Tampon Tax e alle piccole vittorie, le donne ne hanno dovuta fare di strada. Sfidando tempi e convenzioni e pronunciando termini che suonavano come una parolaccia.

Mestruazioni: a chi dobbiamo dire grazie

“Il mosto inaridisce, il grano si secca, le piante bruciano…” . Con queste parole Plinio parla di quello che accade quando una donna con le mestruazioni attraversa un campo. Ma non solo nel 77 d.C: queste convinzioni sono sopravvissute nel tempo, arrivando più prossime a noi di quanto dovrebbe piacere a una società civile e razionale. Fino all’Illuminismo si credette che le mestruazioni avessero poteri negativi, capaci di rendere impura (si ringrazino Antico Testamento e Corano per il prestito del termine) o inabile.

Solo con l’ingresso nelle università (la prima al mondo a laurearsi in medicina fu Elizabeth Blackwell, nel 1849) le donne iniziano a ripensare l’approccio medico al fenomeno, a chiedere spazi per legittimare il proprio corpo. Per non vedere più le mestruazioni una “malattia femminile” che costringeva a letto o che escludeva la donna perché, in una sineddoche del vivere quotidiano, una volta al mese era “indisposta”.

Un salto avanti nella storia delle mestruazioni: Jane McChrystal

Prima di tuffarci nel passato, facciamo un passo avanti. Con una premessa dei giorni nostri. In un articolo apparso il 10 ottobre 2021 su “History Times“, la storica Jane McChrystal riporta un pensiero opinabile. Nel 1870,  Henry Maudsley, psichiatra, scrisse un saggio secondo il quale per le ragazze tra 14 e 16 le mestruazioni erano un’incombenza tale che sarebbe stato meglio non frequentassero la scuola. In un periodo in cui l’istruzione femminile era nettamente più bassa di quella maschile, questo voleva dire aumentare il divario. Parole d’ordine: stare a casa e riposare. Lasciando rispetto alle opportunità date ai ragazzi un vuoto incolmabile, che non sarebbe stato possibile sanare passata quell’età.

 Maudsley sosteneva che le donne che non accettavano il divieto di interrompere la propria attività durante le mestruazioni sarebbero andate presto incontro a squilibrio mentale, fine delle mestruazioni, breakdown, epilessia e corea

Jane McChrystal

Ancora quattro anni dopo, troviamo in “Sex in Mind and in Education“, sempre di Maudsley, la formulazione di questa teoria. L’isteria derivava da un riflesso inviato dall’utero al cervello. In un corpo che, per sana che potesse essere la mente, una volta al mese sarebbe comunque stato malato.

Elizabeth Garrett Anderson

Per rifarci agli schemi di McChrystal e al paragrafo precedente, è giusto citare la confutatrice delle teorie di Mausley. Prima donna d’Inghilterra a diventare dottoressa, replicò dalle colonne del “Fortnightly Review” alle tesi dello psichiatra. Sostenne che ogni donna che avesse realizzato qualcosa ci era riuscita nonostante le mestruazioni. Ignorando questo impedimento per ascoltare sé stessa. O semplicemente perché non poteva abbandonarsi al riposo, come di certo era concesso alle più benestanti. Le sue contestazioni aprirono la strada a moltissime altre ricerche condotte da donne. Un “tutto quello che fai tu, lo posso fare anch’io mentre sanguino” ante litteram.

Clelia Duel Mosher

Dopo aver studiato 12mila cicli mestruali di 2mila donne diverse, Clelia Duel Mosher pubblicò “Woman’s Physical Freedom”. In questo studio si dedicò a smontare la tendenza degli studiosi a patologizzare il ciclo. Secondo lei, i dolori mestruali dipendevano da una errata alimentazione e dall’uso del corsetto, più che da un effettivo bisogno di riposo. Buttare i corsetti come nei ’70 si bruciavano i reggiseni, dunque: distruggere per rinascere. Nel 1930 la British Women’s Medical Federation pubblicò uno studio su 6mila ragazze che traeva le stesse conclusioni. Quanto tempo perso a non prestarle ascolto!

Ho le mestruazioni: e adesso?

Risposta: non mi trasformo in un’ameba né faccio seccare le piante. Ma come siamo passati dalle donne che devono riposare durante le mestruazioni al #PeriodPride? Ci sono state tre ondate femministe, le campagne di normalizzazione e quelle di sensibilizzazione verso quanto deriva dal ciclo mestruale, c’è stata “Red Flag” di Judy Chicago. E poi ci sono, croce e delizia del nostro tempo, i social. Influencer di Instagram e divulgatori online parlano del ciclo come si meriterebbe, come se fosse perfettamente normale. E i social usano bene la loro maledizione: agiscono da cassa di risonanza, anche della quarta ondata. Connettendo le persone e i loro modi di vedere le cose.

Ma il merito maggiore va a una generazione, la Z, sensibile e attenta. cresciuta in un mondo che ne ha viste abbastanza da sapere che le mestruazioni sono un argomento come un altro. Lo stigma, il tabù continuano ad accompagnare la storia del ciclo mestruale, ma in forma progressivamente minore. Mentre ci si avvia a una normalizzazione insinuata nei discorsi politici, ambientalisti e sociali che gioca a vantaggio di chiunque. Tranne di quello stesso patriarcato che teneva donne e piante rigorosamente lontani tra loro, per non far svegliare le prime e appassire le altre.

Rimane da chiedersi dove ci porterà questa continua apertura, questo percorso verso la distruzione del tabù. La risposta, quella che ai tempi di Maudsley e Anderson non si era pronti ad ascoltare, non può che essere, se si ci approccia come a qualcosa di naturale e assolutamente non stigmatizzante, avanti. Anche perché di strada ce n’è ancora.

Sara Rossi