Dopo aver deliziato il pubblico presente all’ I-Days Festival di Monza, pochi giorni fa, Michael Kiwanuka aveva davanti a sé un’altra prova importante: misurarsi per la prima volta con una platea della Capitale. La quale, va detto subito, ha riservato al cantautore londinese un’accoglienza calda e partecipe, di quelle normalmente dedicate agli artisti già affermati.
Circa 1500 persone – di tutte le età, dato interessante considerato lo status di ‘nuova proposta’ e la carriera finora non lunga del Nostro – sedevano ieri sera presso la Cavea dell’Auditorium/Parco della Musica e pochi minuti dopo le 21 iniziava puntuale lo show. Tredici brani per un’ora e venti di concerto, con una scaletta che, prevedibilmente, ha privilegiato ‘Love & Hate’, secondo album uscito lo scorso luglio.
La formazione schierata sul palcoscenico è un quintetto: oltre al buon Kiwanuka – cantante/chitarrista; jeans e camicia a quadri – c’è spazio per Michael Jablonka alla sei corde solista (e una selva vaporosa di ricci neri degna di un fumetto afro anni Settanta), Steve Pringle alle tastiere, Alex Bonfanti al basso e Lewis Wright alla batteria.
Una band che, malgrado l’assenza on stage di coriste e archi, per tutta la durata dello show renderà ottimo servizio alle canzoni nel rispetto del sound e degli arrangiamenti originali, a dispetto di virtuosismi o superflui esercizi di stile.
In scena acquista sostanza ciò che già su disco era accaduto: un passaggio cruciale, e fortemente voluto, dalle atmosfere calde, acustiche e dolci del primo album ai toni più scuri, epici, sofferti del secondo. Per credere, basterà ascoltare il brano d’apertura del concerto: “Cold Little Heart”, lunga, dilatata, dall’architettura maestosa e ricca di pathos, mette in evidenza il piglio elettrico e trascinante che ora è cifra stilistica della band. E’ come se ai nomi tutelari degli esordi (e cioè la Black Music dei maestri: Marvin Gaye, Bill Withers, Curtis Mayfield, Terry Callier) si fosse aggiunta l’inquietudine elettrica/elettrizzante dei Pink Floyd di “The Wall”, ma anche un’immediatezza pop che risplende in pezzi come “One More Night”, non a caso scelta come singolo apripista del nuovo lavoro.
E già al terzo brano, complice il battimani e il potente groove funky-blues di “Black Man in a White World” il pubblico in platea è conquistato, stregato dalla voce potente di Michael e dalla litania ipnotica del pezzo. Fugace apparizione – e conseguente cambio d’atmosfere – per due estratti dal disco d’esordio: “I’m Getting Ready” e “Rest” ci riportano all’intimismo delicato di ‘Home Again’, esordio prezioso datato 2012. Ma è solo una parentesi, perché riprende la selezione da canzoni più recenti e la chiusura prima del bis è davvero degna di nota: si avvicendano prima la morbida ballata soul “Father’s Child”, quindi “The Final Frame”, altro numero lungo e d’atmosfera, ricco di momenti di alternanza tra quiete e pathos strumentale.
Riuscito e d’effetto lo stratagemma di far uscire i musicisti uno per volta a partire dal protagonista, man mano che il brano decresce fino a spegnersi. C’è tempo per un bis prima dei saluti: ed ecco allora “Run Like The Breeze” (estratta dalla colonna sonora del documentario ‘I Am Ali’, sul pugile Muhammad Ali), la splendida “Home Again” e “Love & Hate” in chiusura. Concerto riuscito: e laddove la ritrosia, la timidezza di Kiwanuka fa capolino, un’onda intensa di suoni ed emozioni compensa ogni altra cosa.
Dunque salutiamo con piacere l’affermazione di un cantautore trentenne con tutti i numeri destinati al successo, esempio eclatante di come certe influenze classiche/vintage (nel suo caso, inerenti ai classici della Black Music funk-soul anni Settanta) possano essere brillantemente sintetizzate in una proposta convincente, capace di rinverdire la tradizione senza calchi stilistici.
Ariel Bertoldo